L’Europa di Einaudi un modello preveggente

ITALIA. Il 24 marzo di 150 anni fa, in pieno Ottocento, nasceva a Carrù, in Piemonte, un grande italiano, Luigi Einaudi.

Il Comitato promosso dalla Fondazione Einaudi di Torino e dal Centro Einaudi, lo ricorderà lunedi 25 in Campidoglio, alla presenza di un successore di Einaudi, Sergio Mattarella, con la prolusione di un altro successore, il Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta. Un ricordo forte, molto necessario nell’Italia di oggi, perché il suo pensiero è di estrema attualità e costituisce una chiave interpretativa per molte delle contraddizioni della nostra epoca. Prima fra tutte, in scala gerarchica, la questione europea, sulla quale Luigi Einaudi scrisse pagine di insolita durezza, indicando la meta degli Stati Uniti d’Europa, proprio nel momento in cui il continente conosceva le sue pagine più buie. Scagliandosi allora contro «l’idolo immondo del sovranismo, radice delle guerre e ostacolo sociale» come giudicherebbe oggi l’incosciente rincorsa nazionalista alle divisioni e agli egoismi? Sarebbe felice di sapere che a giugno si celebrano elezioni per un Parlamento europeo, ma bisognerebbe informarlo dell’incerto e confuso contesto geopolitico in cui questo avverrà, e soprattutto dell’indifferenza dell’opinione pubblica rispetto a una decisiva partita per la sicurezza e il benessere dei cittadini. Con una classe politica italiana litigiosa, che misura solo campi di alleanza tra diversi e mostra indulgenze per autocrati in guerra, mentre la più grande democrazia del mondo sembra ipnotizzata dal populismo.

Einaudi definiva sé stesso un predicatore «inutile» perché scettico proprio sulla capacità della classe politica di essere all’altezza di un ruolo di guida, e non trainata solo da umori ed emozioni. Aveva un senso alto del valore della politica. «Molte delle magagne della nostra vita pubblica - scriveva - derivano dal fatto che (i politici) al peccato veniale di nulla sapere della tecnica degli istituti a cui siano preposti, aggiungono per lo più il mortalissimo peccato di essere ignari eziandio della speciale materia che è quella politica». Eppure, quella del suo tempo, è stata la classe politica che ha portato l’Italia fuori dalla distruzione bellica verso il miracolo economico, grazie anche ad alcune scelte coraggiose proprio di Einaudi, prima Costituente (coprire rigorosamente la spesa pubblica), poi inventore del Ministero del Bilancio e infine custode della moneta nella guida della Banca centrale.

Certo, Einaudi era un «competente» che il Paese ha avuto la fortuna di trovare sulla sua strada. Bisogna sapere, scriveva, che «governare un Paese vuol dire governare uomini, indirizzandone gli sforzi ad un fine comune e collettivo. Non basta un buon teologo per fare un buon Papa». Era un economista, ma anche un intellettuale che poneva l’etica al servizio della libertà. Con una grande conoscenza dell’uomo nella sua dimensione reale. Si chiedeva sempre di fronte ad una scelta quale fosse la più giusta «data l’indole umana». Dentro la sterminata produzione pubblicistica di Einaudi è arduo fare una sintesi. Ma bastano alcune cose che tutti ricordano: l’eguaglianza dei punti di partenza. O il famoso «conoscere per deliberare». Einaudi metteva sullo stesso piano due pericoli da evitare: «L’onnipotenza dello Stato e la prepotenza privata». Da qui, la sua battaglia contro i monopoli e a favore della concorrenza, e il suo fortissimo senso dello Stato regolatore. La differenza tra il liberalismo e tutte le altre dottrine politiche è del resto che queste ultime sono teorie del potere, mentre il liberale si preoccupa di limitarlo. Non era un liberista, semmai un neoliberale, che appunto si occupava dei limiti del mercato: lavoro minorile e femminile, previdenza, sindacato.

E pensare che Einaudi, per farsi capire, scrive una delle sue pagine più belle, accennando al mercato ispirandosi a quello del suo paesello: «Tutti coloro che vanno alla fiera, sanno che questa non potrebbe avere luogo se (…) non ci fosse qualcos’altro: il cappello a due punte della coppia dei carabinieri che si vede passare sulla piazza, la divisa della guardia municipale che fa tacere due che si sono presi a male parole, il palazzo del municipio, col segretario e il sindaco, la pretura e la conciliatura, il notaio che redige i contratti, l’avvocato a cui si ricorre quando si crede di essere a torto imbrogliati in un contratto, il parroco, il quale ricorda i doveri del buon cristiano, doveri che non bisogna dimenticare nemmeno in fiera». Le regole, insomma, come sicurezza per tutti. Fino alla sua affermazione più sorprendente: «L’impero della legge come condizione dell’anarchia degli spiriti».

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