L’impronta del premier
nelle scelte decisive

Il governo di «alto profilo» chiesto da Mattarella, che dovrà gestire il piano vaccini e come spendere i 209 miliardi del Recovery fund, è dunque pronto. L’esecutivo Draghi nasce più politico del previsto, per quanto la pattuglia dei tecnici (8 su 23 ministri), tutta di qualità, sia destinata ai dicasteri che contano: transizione ecologica e digitale, il core business della nuova compagine a struttura ibrida. C’è anche una sfumatura aggiuntiva che privilegia le presenze del Nord rispetto al Conte 2. Ci sarà tempo per capire se le grandi aspettative sono state rispettate o se si è rimasti al di sotto della soglia attesa, in ogni caso a fare la differenza sono il peso specifico e la credibilità di Draghi, la cui impronta è visibile direttamente nella scelta del ministro dell’Economia, Daniele Franco, fedelissimo dell’ex banchiere centrale e direttore generale di Bankitalia.

Siamo in presenza di una formula di governo plebiscitata da tutti, con l’eccezione di Fratelli d’Italia, che occupa praticamente tutto lo spettro politico e che riunisce quindi avversari naturali.

Un esecutivo di scopo, il cui orizzonte temporale si vedrà. Una coalizione necessitata che non estingue evidentemente la dialettica politica, inedita in modo solo parziale: stanno insieme vecchi volti, esperti di sicuro mestiere, politici di lungo corso. Non esattamente il «governo degli ottimati» come sostenuto da taluno, intendendo con questo termine uno squilibrio tecnocratico, e neppure un taglio punitivo verso i partiti: anzi. In realtà il premier incaricato deve aver tenuto conto della complessità di una maggioranza larga e sovrabbondante, bilanciando istanze tecniche e alchimie politiche.

Scontata l’assenza dei leader di partito. L’equilibrio politico sembra ottenuto, è invece insufficiente la presenza delle ministre e il deficit è sperabile sia colmato quando saranno designati vice ministri e sottosegretari. Il dato istituzionale rilevante è che la guida dei tre ministeri che definiscono la struttura fondamentale dello Stato (Interni, Difesa, Esteri) resta nel segno della continuità. A questo vanno aggiunti il ministro Franco che, da ex Ragioniere dello Stato, conosce la macchina pubblica e la garanzia di Marta Cartabia, già presidente della Corte Costituzionale, alla Giustizia che chiude la non felice stagione di Bonafede. La Lega, dopo il clamoroso dietrofront, torna al governo: Salvini ha buoni motivi per rallegrarsi, ma fino a un certo punto. È piuttosto il successo di Giorgetti, che va allo Sviluppo economico, l’eminenza grigia, l’architetto della svolta salviniana, e con lui il retroterra dei territori settentrionali e dei produttori del Nord. Speranza è confermato alla Sanità, segno che c’è del buono in quel che è stato fatto sinora, mentre il Pd porta a casa tre ministri, tutte pedine strategiche nelle correnti del partito. Renzi, che ha voluto la crisi, ha rimediato assai poco, meno di prima.

I grillini si riaffidano a Di Maio ancora alla Farnesina, e all’ala governista, senza alcuna presenza che richiami il gruppo che fa riferimento a Conte. I Cinquestelle sono titolari sì del maggior numero di dicasteri (4), ma subiscono un leggero ridimensionamento: ottengono la nascita del ministero dell’Ambiente e Transizione ecologica, affidato però a un supertecnico. Nell’area degli esperti c’è Vincenzo Colao, che a suo tempo ha guidato il gruppo di studio voluto da Conte. Torna in scena anche Forza Italia.

I nuovi ingressi sono in realtà nomi già sperimentati, quelli più vicini all’area centrista: Gelmini e Carfagna, e soprattutto il battagliero Brunetta alla Pubblica amministrazione, dove ingaggiò un braccio di ferro con gli statali.

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