L’inflazione ora preoccupa ma gli ultimi trent’anni danno scenari meno cupi

Guerra e inflazione sono i temi che dominano le Considerazioni Finali del Governatore della Banca d’Italia in questo difficile 2022. Ma i toni di fondo non sono poi così cupi e bisogna dire che l’inflazione è un problema maggiore rispetto alla guerra, naturalmente solo sotto il profilo strettamente economico e finché si mantiene nei termini attuali. Il conflitto sta generando soprattutto maggiore incertezza sulle aspettative e distorsioni nelle catene distributive, senza ancora un impatto immediato e diretto sui livelli di produzione nel nostro Paese.

Paradossalmente, la nuova suddivisione in blocchi del pianeta potrebbe aprire alle nostre imprese nuovi spazi in mercati non più presidiati o meno presidiati da altri fornitori internazionali. Ma è l’inflazione che perturba di più lo svolgimento dei sistemi economici. Inizialmente sottovalutata, oggi si sta manifestando con una virulenza commisurata alla dimensione ingente dell’espansione monetaria degli anni scorsi. In Europa ha raggiunto il massimo storico da quando esiste l’Euro superando l’8%, in Italia è prossima al 7,5%. A preoccupare di più è la cosiddetta componente strutturale, quella depurata da fattori contingenti come il basso livello dei prezzi degli anni scorsi o l’impennata, forse temporanea dei prezzi dell’energia. Oggi l’inflazione strutturale, quella che dobbiamo aspettarci nel medio periodo, è sopra il 3%.

Il contrasto all’inflazione è la politica monetaria restrittiva: aumento dei tassi di interesse e rallentamento dell’immissione di nuova moneta. La Bce ha già avviato questo percorso e adesso è pronta a graduali aumenti dei tassi di interesse. Visco auspicherebbe una traiettoria più lenta rispetto a quella impressa dalla presidente Lagarde, sia perché siamo su livelli di crescita più bassi sia perché abbiamo ancora l’incombente debito pubblico.

Già, il debito pubblico. Il Governatore si compiace che il rapporto con il Pil sia ben 10 punti inferiore alle aspettative, ma si colloca pur sempre al 150% del prodotto annuale. Ogni aumento dei tassi di interesse comporta un costo crescente del finanziamento. I mercati incominciano ad accorgersene e lo spread con i titoli tedeschi, di cui ci eravamo quasi dimenticati, ritorna in area 200 punti.

In apertura parlavo di toni meno cupi del previsto perché Visco inserisce una riflessione di più ampio respiro sugli ultimi trent’anni, osservando come dal 1990 l’apertura degli scambi internazionali e il progresso tecnologico abbiano prodotto un’espansione senza precedenti, sia in termini di prodotto mondiale, più che raddoppiato, sia aumentando il tenore di vita anche di aree periferiche del mondo e riducendo il numero di persone in condizioni di povertà estrema da quasi 2 miliardi a meno di 700 milioni. È un’osservazione incoraggiante, perché dice che la strada è giusta: l’apertura del commercio internazionale, lo scambio e la collaborazione fra Paesi del mondo, gli investimenti in tecnologia di tutti i tipi accrescono il benessere di tutti, anche e soprattutto di chi è più in difficoltà. A questi impegni oggi si aggiunge la sfida della transizione ecologica. È questa traiettoria di lungo periodo che la guerra rischia di interrompere o di deviare. Formare nuovi blocchi che separano il mondo non porta beneficio a nessuno, ostacolare gli scambi fra le aree del pianeta frena la crescita di tutti, riporta indietro le lancette dell’orologio del tempo a periodi meno fecondi. Visco chiude citando Einaudi, uno dei pochi veri liberali che abbiamo avuto nel nostro Paese, il quale dimostrava che «libertà di scambi economici vuol dire pace». Dobbiamo lavorare per la pace (anche) per sostenere lo sviluppo economico.

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