Lo sviluppo economico e il ruolo dello Stato: servono regole giuste

L’ANALISI. Lo Stato può agire come motore dell’innovazione e del cambiamento. È lo Stato imprenditore in breve che fa scattare la scintilla della modernizzazione tecnologica.

È la teoria di Mariana Mazzucato, economista italiana all’University College di Londra. In Cina lo fanno da tempo con successo. La presenza pubblica nella modernizzazione del Paese ha favorito lo sviluppo. Anche in occidente, a partire dagli Stati Uniti, lo Stato torna protagonista. Il presidente americano Joe Biden ha segnato il punto di svolta. Ha rotto con la tradizione liberale classica che vede lo Stato come un estraneo nell’economia. Ha licenziato tre grandi programmi di finanziamenti statali e, consapevole di quanto la globalizzazione sfrenata abbia danneggiato la classe media produttiva americana, ha commentato: questa visione è una rottura fondamentale con la teoria economica che ha reso possibile l’abbandono a se stesso del ceto medio americano .

C’è voluta la pandemia, la stretta sulle forniture, la crisi energetica seguita alla guerra in Ucraina, la crescita esponenziale della domanda di microprocessori e infine l’inflazione e il conseguente aumento dei tassi di interesse delle banche centrali per capovolgere i dettami della politica economica e arrivare là dove gli avversari strategici dell’Occidente da tempo erano arrivati. Lo Stato non è cattivo in sè e per sé. Dipende da come si interpreta il suo intervento.

In Italia abbiamo vissuto la metà del secolo scorso all’insegna dell’interventismo pubblico. Ma alla fine tutto è crollato perché da fonte di incentivazione economica lo Stato si era trasformato in strumento di assistenzialismo e corruzione. La lunga mano dei partiti politici di governo aveva dissanguato le casse dello Stato e portato alla montagna di debiti di oggi. Senza arrivare ai paradossi italiani, la presenza dello Stato va comunque calibrata. Un conto è il modello americano e un altro quello tedesco. Joe Biden ha varato l’Inflation reduction act che con l’inflazione c’entra poco ma ha come fine di stimolare e premiare tutti i prodotti «made in Usa» nel nome dell’innovazione energetica, una spesa di 433 miliardi di dollari. Poi è seguito il Chips and science act che offre 280 miliardi di dollari per incentivare la produzione dei semiconduttori e quindi staccarsi dalla dipendenza asiatica, per dirla con il presidente americano: questa legge promuove saggi investimenti per ridare futuro agli Usa. Ma il più grande resta l’Infrastructure investment and jobs act che con 1.200 miliardi di dollari, più della metà del Pil italiano in valuta americana, per ponti, strade, ferrovie, elettricità, rete internet, mobilità elettrica, punti di ricarica per e-auto ecc.

Anche il governo tedesco non è rimasto con le mani in mano. Incentiva la produzione delle energie rinnovabili, il risparmio energetico, il passaggio ad un’economia a emissioni zero ma lo fa con l’approccio sanzionatorio: volete avere l’incentivo per la nuova caldaia a pompa di calore? Prima dovete dismettere quella a gas. Vogliamo elettrificare la mobilità? Prima eleminiamo i motori a combustione. E via di seguito. Risultato, la gente si spaventa e soprattutto quella di fascia bassa teme di doversi indebitare e quindi non si muove. Negli ultimi 15 anni, dopo infiniti proclami, il 93% del settore trasporti è ancora a combustione fossile.

L’Italia ha fatto la sua esperienza con l’ Ecobonus, ipernormato e tuttavia fonte di speculazione. Viviamo tempi dove non conta l’ideologia. Il modello cinese non è il nostro modello ma se serve anche in Occidente lo Stato può dare l’ indirizzo di sviluppo. Il problema è il come. L’esempio americano lascia libertà al mercato e pone pochi invalicabili paletti. In Europa amiamo le regole. L’ importante è però che non strozzino.

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