Madri incinte e bambini, morire cercando la pace. L’Europa cambi sguardo

Una bambina turca di 10 anni è morta venerdì scorso travolta dal fiume Dragogna, al confine tra Slovenia e Croazia, mentre cercava di attraversarlo con la madre e i tre fratelli. Non è stato reso noto il nome della piccola. Si chiamava invece Avin Irfan Zahir una migrante di 39 anni che ha perso la vita, incinta del sesto figlio. Con gli altri cinque e il marito, la famiglia curdo-irachena aveva raggiunto il territorio polacco ma per timore di essere respinti in Bielorussia era nascosta in un bosco. Il nascituro in grembo era morto da 20 giorni: la donna è deceduta in ospedale per un’infezione. Una tragedia evitabile, se i genitori con i piccoli figli non fossero stati esposti per settimane al freddo, esausti a causa di lunghe camminate, disidratati e con poco cibo. È successo in Europa.

Visitando per la seconda volta l’isola di Lesbo in Grecia, dove 2.200 fuggiaschi da guerre e persecuzioni vivono in baracche, tendoni e container, Papa Francesco ha definito «naufragio di civiltà» ciò che accade nel Mediterraneo, «che sta diventando un freddo cimitero senza lapidi». Ma di cimiteri di migranti è costellato il nostro continente: dalla rotta balcanica al canale che separa Spagna e Marocco, alla Manica. Qui è affogato un altro bambino. Si chiamava Artin, era curdo-iraniano: il suo corpo è stato trovato dopo giorni in Norvegia, a mille km di distanza.

Si discute molto della sicurezza da tutelare dall’arrivo di migranti (associati spesso a portatori di criminalità: anche donne e bambini?) ma poco o per nulla di quella gravemente a rischio alla quale va incontro chi cerca una vita di pace in Europa, merce in mano a trafficanti o a Stati corrotti come la dittatura di Alexander Lukashenko, che li ha attratti in Bielorussia per poi dirigerli verso i confini con l’Ue (Polonia e Lituania), come ritorsione alle sanzioni che Bruxelles ha imposto a Minsk per la repressione costante delle opposizioni. Il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki ha dichiarato che al confine non c’è una crisi umanitaria ma politica, come se lungo la frontiera non ci fossero centinaia di migranti che sopravvivono all’addiaccio nascosti nei boschi o in fabbriche abbandonate chiamate «centri di accoglienza». Varsavia fa bene a non cedere al ricatto di Lukashenko ma non può negare l’evidenza di vite in pericolo, di «profughi» come li ha chiamati Morawiecki, forse per sbadataggine, cioè di persone che scappano da conflitti e avrebbero diritto a presentare domanda d’asilo. Ma quel diritto in Europa non è più rispettato, soprattutto sul fronte Est.

I fuggiaschi non muoiono solo in mare, nei fiumi o nelle foreste. Secondo l’Organizzazione mondiale delle migrazioni (Oim) tra il 2014 e il 2018 almeno 30 mila sono deceduti nel tentativo di attraversare il deserto africano, diretti in Libia. L’Europa deve avere uno sguardo più umano e più lungo, meno tecnocrate. Pensare di gestire il fenomeno alle soglie del continente è un’illusione. «Vanno affrontate le cause remote - ha detto ancora il Papa a Lesbo - non le povere persone che ne pagano le conseguenze, venendo pure usate per propaganda politica. Per rimuovere le cause profonde, non si possono solo tamponare le emergenze. Occorrono azioni concertate, approcciare i cambiamenti epocali con grandezza di visione. Perché non ci sono risposte facili a problemi complessi». Non è vero che la Chiesa sia schierata solo per l’accoglienza. Riconosce anche il diritto a non dover emigrare. In un messaggio all’Oim per i 70 anni dalla fondazione, Francesco ha chiesto all’organizzazione «di affrontare le condizioni perché la migrazione diventi una scelta ben informata e non una necessità disperata». Umanità e realismo. Speculare sulla paura e promuovere politiche solo securitarie non ci ha portati lontano.

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