Magistrati, se parlano
soltanto le sentenze

I tentativi di riformare il processo penale in Italia hanno sempre scatenato una ridda di polemiche. A questo clima non si sono sottratte le novità introdotte dal ministro della Giustizia Marta Cartabia. Forse è inevitabile - ma non le violenze verbali - trattandosi di materia delicata. Comunque la si pensi, lo status quo però è inaccettabile: nel nostro Paese i procedimenti durano il quadruplo rispetto a quanto accade in Inghilterra, il triplo della Germania e il doppio della Spagna. È civile uno Stato che tiene sotto processo una persona per 15 anni, poi magari risultando non colpevole?

Svettiamo tra gli Stati che hanno aderito alla Cedu, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, per numero di condanne ricevute per irragionevole durata degli iter giudiziari: 1.202 dal 1959. Superiamo la Turchia (608), la Francia (284) e la Germania (102). Siamo un popolo di esterofili, ma non su questo tema.

Ora Bruxelles condiziona i fondi del Recovery plan a una riforma della giustizia penale che abbia l’obiettivo di ridurre del 25% la durata media per arrivare a sentenza. Ma l’Unione europea nel 2016 emise anche una direttiva che impone di seguire il principio di non colpevolezza (previsto anche dalla nostra Costituzione all’articolo 27, secondo il quale si è colpevoli solo dopo condanna definitiva) e chiede riserbo ai magistrati. Solo il 28 marzo scorso è stata recepita dal nostro Parlamento e in settimana il Consiglio dei ministri l’ha inserita in un decreto legislativo. Soltanto il procuratore e nemmeno i suoi sostituti potrà comunicare pubblicamente con i media attraverso le conferenze stampa, in caso di inchieste di particolare rilievo e di interesse pubblico. Già le norme italiane - poco rispettate - mettono in capo allo stesso procuratore il rapporto con i giornalisti. Ma la direttiva Ue è più stringente e si ispira al criterio della presunzione d’innocenza: le persone arrestate non dovranno essere cioè presentate come già condannate.

Non si tratta di una legge-bavaglio, semmai di una norma che riporta il discorso sui processi nei canali della civiltà giuridica. La maggioranza dei pubblici ministeri lavora seriamente, con risorse scarse e senza concedere parole ai media, motivando la scelta con l’evidenza deontologica che «le indagini sono ancora in corso ed è prematuro arrivare a conclusioni». «I magistrati parlano con le sentenze» non è un modo dire. Ma ci sono toghe ciarliere, che rilasciano molte dichiarazioni a indagini in corso e in alcuni casi senza usare il condizionale per definire la posizione degli indagati. O che non lesinano addirittura la partecipazione a talk show. Il capo di una procura in Calabria due anni fa tenne una conferenza stampa per presentare «la più grande operazione anti mafia dopo il maxi processo di Palermo» con l’arresto di 334 persone: a processo ne andarono una ventina. Quindi nemmeno i procuratori sono garanzia di rispetto della direttiva Ue, se privi di prudenza e animati dal desiderio di pubblicizzare grandi inchieste che poi si sgonfiano al vaglio del rinvio a giudizio.

Secondo l’Associazione nazionale magistrati, per voce del presidente Giuseppe Santalucia, «la direttiva europea esiste e bisogna tenerne conto. Ma non credo che le conferenze stampa potranno essere abolite perché sarebbe un danno al diritto all’informazione». Non verranno abolite e il diritto richiamato non è un dogma, soprattutto quando va a ledere in via definitiva la dignità di persone al momento solo indagate. Dignità che deve essere preservata sempre, anche per non perdere credibilità quando le informazioni risultano poi errate, con ricadute negative sul rapporto già deteriorato tra i cittadini e le toghe. Recentemente il vice presidente del Csm (Consiglio superiore della magistratura) David Ermini ha ammesso che «ci siamo accorti troppo tardi della sfiducia della gente nei confronti dei magistrati». Scriveva il grande giudice Giovanni Falcone, all’indomani del referendum sulla responsabilità civile delle toghe (8 condanne negli ultimi 11 anni), approvato sulla scia del terribile caso Tortora: «La stragrande maggioranza dell’elettorato ritiene che la funzione giurisdizionale non sia svolta attualmente con la necessaria professionalità e che bisogna porre rimedio alla sostanziale irresponsabilità dei magistrati». Era il 1988.

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