Mattarella dà voce
all’Italia silenziosa

Squarci di tenerezza fra i drammi di un’Italia non sempre consapevole delle proprie virtù e che talvolta non dà il meglio di sé. Speranza e cultura della responsabilità sono le parole chiave del discorso di fine anno del presidente Mattarella, pillole di saggezza salutate da tutte le forze politiche, compresa l’avveduta Giorgia Meloni, ma con la scontata eccezione di Salvini, preso da divagazioni tutte sue. Oltre che da 10 milioni di telespettatori.

Il Capo dello Stato ha parlato dal Palazzo agli italiani comuni, senza passare dal Palazzo, e ha raccontato l’Italia che meno ti aspetti: quella buona, che pensa in positivo, con la testa sulle spalle. Diritti e doveri. L’Italia dalla bellezza e dalla moralità invisibili, quella silenziosa come l’ha definita Mattarella, che non ha nulla a che spartire politicamente con la maggioranza silenziosa degli anni ’70-’80. Siamo meglio di quel che ci percepiamo ed è una questione di fiducia: bisogna crederci, e la questione non impatta solo sull’economia.

Dall’alto del Colle la pedagogia civile del presidente avverte che dopo la stagione della protesta anti sistema ora sale una domanda nuova, di futuro, di costruzione di un senso comune. I problemi, e che problemi, non mancano: il lavoro che non c’è, i cervelli che se ne vanno, la distanza traumatica fra Nord e Sud. E però disponiamo di una collaudata cassetta degli attrezzi: sapienza, genio, armonia, umanità. Umanità anche in tempi di cattivismo, quasi l’invito ad un ravvedimento operoso e, soprattutto, alla cultura della responsabilità che riguarda tutti, il presidio dello spirito repubblicano. In sostanza, la personalità cattolico democratica del presidente ha riproposto le coordinate dello Stato-comunità, della società aperta. Non il «prima gli italiani», ma l’Italia di tutti. Per quanto abbia evitato di dire la sua sugli argomenti più spigolosi (come la riforma della prescrizione nei processi, un vulnus allo Stato di diritto), quello di Mattarella è stato un discorso tutto politico e giocato sull’attualità, ascoltando che quel di nuovo e di meritevole sale dalla società: come fece Aldo Moro, il suo maestro, a fine anni ’60. Il presidente il 30 gennaio festeggia i suoi primi cinque anni del settennato e il 2019 lo ha visto in prima linea nel governare la crisi politica più pazza di sempre e nell’arginare l’escalation populista. È stato il patron del Conte bis, figlio di una logica parlamentare, e l’intelligenza che ha stabilizzato il Paese agli occhi di chi ci guarda e di chi investe sull’Italia. Il suo principale successo è stato quello di restituire al Paese le coordinate del multilateralismo (Europa, Nato, euro), smussando gli angoli del nuovismo nazionalista.

Come sempre succede, le esortazioni dell’inquilino del Quirinale vengono accolte ma non recepite. Siamo ancora lontani dal dismettere le armi del catastrofismo sfascista, così come dall’affidarci alle istanze di una democrazia partecipata. Il governo, fatta la manovra finanziaria, naviga a vista. Il Pd è un ramo freddo della politica, i grillini, titolari di una saga triste, sono in caduta libera, prigionieri di tensioni multiple che ridisegnano la leadership di Di Maio e la stessa struttura opaca della ditta Casaleggio. Renzi è un rebus, fra incursioni corsare e collaborazione governativa. Conte II si sta rifacendo la verginità senza autocritica e tuttavia, attraverso le «convergenze parallele» fra contismo e Pd, promette di essere componente fissa del paesaggio politico: la variabile che nessuno aveva valutato, forse a partire dallo stesso interessato. Il 26 gennaio si vota in Emilia Romagna e molto, per governo e centrosinistra, si deciderà nella storica contea rossa. Non sarà un pranzo di gala e lo sa anche Salvini.

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