Meloni, ricerca di spazi identitari

Politica. Giorgia Meloni sta prendendo le misure della propria maggioranza, in particolare fin dove può spingersi il grado di compatibilità con Salvini, mentre le tre opposizioni giocano ciascuna la loro partita in proprio.

La luna di miele della premier è attesa alla verifica della manovra finanziaria, che non suscita particolari entusiasmi, e soprattutto degli emendamenti parlamentari con il prevedibile assalto alla diligenza. L’interlocuzione con Calenda non sarà un soccorso del Terzo polo, in ogni caso può essere utile alla premier per ricordare a Salvini di non tirare troppo la corda, anche se approcci di questo genere andrebbero fatti alla luce del sole e nelle sedi appropriate: in Parlamento. Sarà un percorso a ostacoli dai tempi stretti, visto che c’è meno di un mese per licenziare la legge di stabilità ed evitare l’esercizio provvisorio. Una questione di tempo anche per il Pnrr: la situazione si complica e non è chiaro se il governo intenda proporre aggiustamenti e quali modifiche con precisione. L’avvertimento dell’Europa vuole che gli adempimenti in scadenza per fine anno siano rispettati.

La prima volta di un governo di destra emancipatosi dal centro coincide curiosamente con l’ingresso della società italiana nel ciclo del post populismo, come hanno scritto nel loro recente rapporto i sociologi del Censis. L’impressione è che la premier alterni continuità e normalità alla ricerca di spazi identitari con interventi selettivi e ideologici: è successo con gli immigrati e con la norma anti rave, con relativa marcia indietro e correzione. Pur all’interno di un senso delle istituzioni, visibile rispetto agli strappi di Salvini e del Berlusconi della stagione arrembante, Meloni fatica, anche nel linguaggio, a creare una sintesi fra l’essere leader della destra e alla guida del Paese. Parla soprattutto al mondo che l’ha portata a Palazzo Chigi. Un piglio di comando e insieme teso a rassicurare. La mano severa e accomodante. Il rispetto dei vincoli di bilancio appaiato al trattamento di riguardo verso la propria base elettorale. L’assecondare una disciplina dei conti pubblici, che talora nelle componenti dell’esecutivo sembra non proprio convinto, ma un passaggio subìto con possibilità di scartare fin dove si riesce: è il caso, ad esempio, della mozione sulla non ratifica (per ora) del Mes, il Fondo salva Stati, agli occhi dei sovranisti il simbolo di un’Europa che mette sotto tutela.

Dario Di Vico, abituato a leggere le trasformazioni delle classi sociali, ha osservato sul «Foglio» che non vale più la regola della crescita quale presupposto del consenso. Prima viene il consenso, che può essere il ricorso al contante e alla cosiddetta pace fiscale. La ricerca, cioè, di un’alleanza stretta, un rapporto organico con il ceto medio produttivo, quei Piccoli che, al Nord, hanno segnato l’era del forzaleghismo. Il capo del governo, riferito agli imprenditori, ha promesso di non disturbare chi produce, ma il braccino corto verso l’industria non è piaciuto al presidente di Confindustria.

Una manovra finanziaria volta alla tutela del ceto medio e tuttavia una serie di articoli de «Il Sole 24 Ore» non confermano gli annunci di Palazzo Chigi: in un Paese dall’evasione fiscale a briglia sciolta, sono appena 5 milioni su 41 milioni di contribuenti (quel 13% con redditi superiori ai 35mila euro) a sostenere l’onere dello Stato sociale. Vuol dire che le tasse di questa minoranza, che non appare valorizzata dalla legge di bilancio, contribuiscono per il 60% al gettito fiscale complessivo. Meloni è consapevole, perché lo ha detto, che il ridimensionamento e l’eliminazione (dal 2024) del Reddito di cittadinanza sono impopolari al Sud, ma la destra ha un consenso più al Nord, ostile a questa misura, che al Mezzogiorno. La riforma è necessaria, perché il Rdc è stato confezionato male e in fretta, purché l’orizzonte non sia quello di risparmiare per coprire i condoni o un senso di rivalsa punitiva verso chi è considerato con pregiudizio uno «scansafatiche»: il vecchio riflesso condizionato dei conservatori, che vede chi rimane indietro come colpevoli della loro condizione. Il profilo sociopolitico del governo va verificato sul terreno scivoloso delle fragilità sociali, specie al Sud, dove il Rdc può sovrapporsi all’impatto del progetto di autonomia regionale differenziata, per il quale non si prevedono fanfare, e dove la demagogia grillina soffia su un malessere diffuso. Fra apocalittici e integrati, la via di mezzo assicura che l’Italia ce la può fare, anche se il quadro non è a taglia unica e il ripiegamento convive con la vivacità della società civile e dei corpi intermedi.

Il pur tecnocrate Draghi ha lasciato un Paese con una riduzione dell’indice della disuguaglianza e della povertà (fonte Istat) e l’occupazione è ai massimi dal 1977. Attenzione però a quel processo sotto pelle che rischia di essere di lunga durata, segnalato dal Censis e visto nell’affermazione del partito dell’astensione: l’intreccio lavoro-benessere-democrazia non funziona più, cioè la modernizzazione in cambio di sacrifici non ha quella capacità di seduzione che nei decenni scorsi ha orientato i comportamenti collettivi. Un richiamo per tutti, governo compreso.

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