Migranti, è in Libia
la vera emergenza

Nel 2017 il governo Gentiloni firmò un memorandum per la gestione dell’immigrazione con l’esecutivo Serraj (riconosciuto dall’Onu). Tra i contenuti principali, addestrare e fornire mezzi alla Guardia costiera libica e finanziare quelli che il documento chiama «centri di accoglienza». L’Italia versa ogni anno 50 milioni di euro a Tripoli per queste attività, l’Unione europea dal 2016 una cifra pari a 328 milioni. Il promotore del memorandum fu l’allora ministro dell’Interno Marco Minniti, che stipulò accordi con capi tribù e sindaci anche del Niger per arginare i flussi migratori verso l’Europa. Il memorandum ha avuto effetti positivi se si guardano le conseguenze dal punto di vista degli sbarchi: 22 mila nel 2018, 9.600 nel 2019 (-78% con Minniti ministro, -90% con Salvini).

Ma a quale prezzo umano: quelli che dovrebbero essere Centri di accoglienza in realtà sono di detenzione (19 governativi, con 5 mila persone, un numero imprecisato invece in mano alle mafie libiche della tratta), dove gli «ospiti» sono sottoposti a torture, abusi, estorsioni e sfruttamento sessuale. Ne sono testimonianza le denunce dell’Onu e delle Ong che vi hanno avuto accesso, ma soprattutto lo stato dei corpi di chi sbarca in Italia dopo essere passato dai centri. Definire la Libia porto sicuro è una colossale falsità, sale sulle ferite di chi è schiavizzato nei Centri.

In due anni di memorandum sono state rimandate in quell’inferno 44 mila persone, i morti in mare sono stati 2.600. L’accordo è tacitamente rinnovato alla scadenza, cioè il 2 febbraio 2020, salvo che una delle due parti notifichi per iscritto la propria mutata volontà almeno tre mesi prima. Quindi entro il 2 novembre 2019, cioè ieri. E proprio ieri l’Italia ha chiesto di convocare la Commissione congiunta per introdurre modifiche. Secondo indiscrezioni il nostro governo punterebbe a ottenere un sostanziale miglioramento delle condizioni dei Centri, con la presenza di organismi internazionali a vigilare.

Ma al fondo c’è un problema enorme: la Libia di oggi non è più quella del 2017, quando fu siglato il memorandum. È scivolata in una guerra, con le truppe del generale Khalifa Haftar, avversario di Serraj, che puntano a conquistare Tripoli, anche con raid aerei. In questo contesto succede di tutto. Un recente rapporto dell’Onu, finito sul tavolo del procuratore del Tribunale internazionale dell’Aja, in 17 pagine piene di prove certifica che «la Guardia costiera libica trasferisce migranti in centri di detenzione non ufficiali» dove si ritiene che funzionari del governo «vendano i migranti ai trafficanti». Vengono chiamate in causa le responsabilità di Stati come l’Italia che finanziano ed equipaggiano a fondo perduto le autorità libiche. Che la Guardia costiera fosse in combutta con i trafficanti di esseri umani è noto. Nel frattempo il governo di Tripoli ha però promulgato una legge che prevede «il sequestro e l’accompagnamento nel porto libico più vicino per le imbarcazioni non preventivamente autorizzate», rendendo così impossibile gli interventi di salvataggio delle navi delle Ong.

La Libia non vuole testimoni in mare per essere libera di gestire i traffici. Le navi delle Ong erano finite nel mirino anche in Italia, seppure siano responsabili solo del 9% degli sbarchi: come si fa a sostenere che rappresentino un problema? Perché salvano vite umane? A che punto siamo arrivati. Le condizioni generali della Libia, nostro vicino, sono la vera emergenza, non i salvataggi e gli sbarchi. In Italia sono stati 9.600 nel 2019, come scritto. In Spagna 25 mila, in Grecia 55 mila: nel solo campo di Moira, con capienza di tremila persone, ne sono stipate 20 mila, tra cui molti bambini, in condizioni igienico-sanitarie spaventose. I diritti umani dei migranti in questi tempi sono considerati una pretesa. Meglio girare la testa.

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