Migranti ha vinto
il premier esecutore

Nella breve storia del governo giallo-verde forse questa sui migranti a Malta è la crisi più esplicita ed esibita tra le tante che pure sono scoppiate negli ultimi, tumultuosi mesi. Ma si capisce: nella divisione degli spazi che sta alla base del contratto di governo, a Matteo Salvini spetta il monopolio della gestione della politica migratoria di cui sin dall’inizio è stato il titolare riconosciuto, sia formalmente in quanto ministro dell’Interno, sia politicamente come leader della Lega (e si sa quanto abbia saputo farlo fruttare in termini di consenso). Tanto è vero che Luigi Di Maio fatica non poco a far accettare, anche a prezzo di espulsioni, la politica migratoria salviniana all’insieme dei suoi gruppi parlamentari, e questo proprio in nome dei patti di governo.

Invece nella vicenda dei 49 migranti delle navi Sea Watch e Sea Eye Salvini si è visto scavalcato dal presidente del Consiglio il quale, già alla vigilia dell’accordo europeo, aveva bacchettato il «suo» ministro dicendo che «anche la politica di rigore deve avere un limite» e annunciando che sarebbe stato disposto ad andare con un aereo a prenderli lui in persona quei disperati in mezzo al mare. Frase che a Salvini non era andata giù per nulla, anche per la ragione che il medesimo non ha mai riconosciuto a nessuno, nemmeno al presidente del Consiglio, di poterlo sopravanzare su questa materia. «Decido io», «I porti li chiudo io e rimangono chiusi», «Io non faccio sbarcare nessuno»: quante volte ha ripetuto queste parole?

Di Maio qualche giorno fa, sia pure mascherando l’istinto polemico, gli ricordava che sui migranti «il governo decide nella sua collegialità». E così Conte ha avocato a sé il dossier ed è arrivato all’accordo con gli altri Paesi europei e con la Commissione. A pensarci bene è un altro momento di quella «crescita» politica di colui che doveva essere, nelle intenzioni, niente altro che «un premier esecutore» e che invece, nel confronto con Bruxelles sulla manovra economica, è balzato in primo piano muovendosi da protagonista con Junker, Moscovici e la Merkel. «Abbiamo discusso a lungo in inglese e francese e poi ci siamo stretti la mano» ha poi raccontato Conte non senza un pizzico di sicumera professorale, quel tanto che basta a ricordare a Salvini e a Di Maio che ai tavoli delle trattative internazionali si siede lui che oltretutto sa come si fa e come si parla. Con Malta abbiamo fatto il bis.

Salvini è tornato a Roma da Varsavia (dove è andato a trattare un’alleanza europea con la destra sovranista di Kaczinsky) pretendendo a brutto muso un vertice chiarificatore con Conte e Di Maio, accusandoli senza troppa diplomazia di aver deciso senza di lui. Parole abbastanza ruvide che secondo l’opposizione suonerebbero come una mozione di sfiducia verso il presidente del Consiglio. Di sicuro segnalano un crescendo di tensione tra alleati che risente moltissimo del clima elettorale che ormai permea di sé il mondo politico: si guarda a maggio, alla gara delle europee quando si stabilirà chi tra Lega e M5S detiene il posto di primo partito italiano. E quindi non ci si risparmiano i colpi. Come leggere diversamente la minaccia leghista, lanciata proprio ieri, di non votare il decreto sul reddito di cittadinanza se non ci saranno i fondi anche i per i disabili? Ai più è sembrata una immediata ritorsione sul terreno dove i Cinque Stelle non gradiscono interferenze, proprio come Salvini sui migranti. Difficilmente le speranze dell’opposizione di vedere cadere in pezzi il governo potranno a breve essere soddisfatte, e tuttavia questa tensione va registrata perché potrebbe trascinare il governo da qui a maggio in una condizione di crescente debolezza.

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