Morire sul lavoro
Tragedia rimossa

La morte straziante di Luana D’Orazio, la giovanissima operaia mamma di un bimbo rimasta intrappolata in un orditoio, come in un incidente di 50 anni fa, come ai tempi della rivoluzione industriale, ci ha lasciati sgomenti. Ma la tragedia di Montemurlo è solo una delle tante morti bianche che si verificano ogni giorno. Ieri un altro lavoratore, padre di due figli, Cristian Martinelli, è rimasto schiacciato da un’enorme fresa industriale mentre svolgeva il suo turno in una fabbrica di Busto Arsizio. L’elenco delle vittime del lavoro non cala ormai da anni dopo che erano stati raggiunti dal Dopoguerra in poi costanti progressi: secondo i dati Inail solo nell’ultimo trimestre ci sono stati 128.671 incidenti accertati e 185 morti. Di questi, 17 avevano meno di 35 anni. Si continua a cadere dalle impalcature nei cantieri, i sindacati della Fillea Cgil parlano del 170% in più di vittime solo in questo settore.

Nel precedente trimestre i morti erano stati 166. Vuol dire che ogni giorno due lavoratori non tornano a casa dalla propria famiglia, vanno ad allungare la lista dei caduti sul lavoro, di cui si è parlato poco o punto sul palco del primo maggio perché eravamo troppo distratti dal «caso Fedez» e dalla sua censura Rai non censurata.

Eppure quello dei morti sul lavoro è una delle questioni cruciali e irrinunciabili del nostro tempo: il presidente della Repubblica Mattarella non fa che ripeterlo, quasi ossessivamente. L’inversione della curva degli incidenti è uno dei frutti nefasti della globalizzazione. Che ne è della commissione monocamerale che doveva approfondire il tema, nominata nel 2019 e non ancora insediata? Prato, il distretto dove è avvenuta la tragedia di Luana è emblematico. Una selva di capannoni al cui interno un formicaio di uomini e donne lavora ai telai, spesso col fiato sul collo, perché la concorrenza che viene dall’Estremo Oriente in questo settore è selvaggia. Ma altrove non è molto diverso. C’è la crisi acuita dalla pandemia. Bisogna correre. Per anticipare i produttori, garantire i fornitori e assicurarsi margini di guadagno. C’è la concorrenza della Cina, che non ha regole, dove si lavora giorno e notte in spregio a qualunque regola ambientale e si fanno cinque giorni all’anno di ferie quando va bene. E allora dobbiamo correre anche noi per produrre a ritmi serrati e rimanere sul mercato.

I margini si assottigliano, i fatturati calano, non c’è spazio per investire in sicurezza e prevenzione. La parola d’ordine è destrutturazione, meno regole, meno formazione, non c’è tempo, non ci si rende conto che la sicurezza non è un’alternativa alla produttività ma il suo presupposto. Le ispezioni non sono sufficienti. Il personale è sottodimensionato. Quello in attività non fa che rilevare irregolarità: lo scorso anno su 10 mila aziende ispezionate quasi 8 mila erano irregolari, come nell’Inghilterra dei primi dell’Ottocento. E così dal 2015, mai meno di mille morti all’anno mentre l’obiettivo in un Paese civile non può che essere zero. Zero morti sul lavoro.

Mille morti all’anno - per non parlare dei tanti lavoratori che rimangono invalidi - non bastano a mettere al centro la questione, per sollecitare più controlli, più formazione, più prevenzione, più protocolli tra le parti per mettere l’Azienda Italia in piena sicurezza. Eppure non riusciamo a entrare in quest’ottica. Siamo troppo distratti dal rumore di altri problemi, dalla voglia di riprenderci, di rimettere le cose a posto dopo la pandemia. E infatti nel Piano nazionale di ripresa e di resilienza che consegneremo all’Ue si parla poco di questo aspetto. Manca uno sforzo collettivo, non solo della politica, per rimettere al centro la vita nelle fabbriche e consegnare la lunga lista di sangue consumato tra i macchinari alle nostre spalle, a un passato che non riguardi più i nostri figli.

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