Nascite, cultura e politiche nuove

ATTUALITÀ. Forse adesso qualcosa si muoverà. La natalità è entrata nel dibattito pubblico e tutti hanno convenuto che occorrono politiche demografiche più risolute. Ma soprattutto occorre affrontare il problema «senza steccati ideologici e prese di posizioni preconcette».

C’è voluto un Papa perché le cose si dicessero nella loro cristallina chiarezza. E ieri Bergoglio lo ha magistralmente fatto agli Stati generali della natalità. Il tema è quello dei figli. Ma in Italia sui figli e dunque sulle politiche familiari si sono alzati negli anni steccati e scavate trincee. Nel migliore dei casi le politiche familiari sono state considerate un’emergenza e non invece una normale consuetudine culturale ed economica, secondo cui i figli sono bene comune e hanno un peso specifico nella produzione di ricchezza e nella democrazia di un Paese.

Senza figli un Paese muore. L’Italia da tempo ha imboccato la strada della dissoluzione. I numeri choc forniti dal professor Giancarlo Blangiardo hanno finalmente fatto irruzione nell’agenda politica del Paese: 11 milioni di abitanti e 500 miliardi di Pil in meno. La natalità riguarda la nostra salute economica e sociale. Siamo il Paese più vecchio del mondo e il primo nella storia dell’umanità nel quale il numero delle persone con più di 65 anni ha superato quelle con meno di 14 anni. È accaduto nel 1993 e da allora le cose sono peggiorate. La prima Conferenza nazionale sulla famiglia e relative politiche sulla natalità, l’aveva organizzata a Firenze il ministro della famiglia Rosy Bindi, governo Prodi 2007, ma è finita tra le polemiche per il disegno di legge sui Dico.

Da allora il tasso di litigiosità tra le forze politiche e le contrapposizioni ideologiche hanno relegato la questione in fondo alla fila delle priorità, tema divisivo e da escludere. Ma è stata la realtà, per altro sempre richiamata dai demografi in questi anni, a riportarlo prepotentemente di attualità. Basta un dato: se non si inverte la rotta, tra vent’anni l’economia italiana scivolerà dall’ottavo posto di oggi nel mondo al venticinquesimo. Per cambiare occorre non separare cultura ed economia per evitare di far diventare un alibi l’assenza di politiche familiari.

Certo in Italia, nonostante l’art. 31 della Costituzione richiamato agli Stati generali dal Presidente Sergio Mattarella, nonostante una delle più avanzate leggi sul diritto di famiglia, mancano da sempre politiche familiari degne del nome. Solo in Italia abbiamo assistito negli anni scorsi ad un dibattito surreale. Cosa deve fare il mercato? Investire sulle famiglie con figli o occuparsi, più proficuamente, di quelle che i figli non li hanno e spesso dispongono di molte più risorse? Oggi è abbastanza chiaro dove siamo finiti. Sulla natalità non c’entrano i valori e nemmeno gli schieramenti. L’unica domanda è se siamo disposti a vivere in un Paese di pensionati, poco creativo e poco innovativo, un Paese rassegnato. Per invertire la rotta non ci vuole molto, non bisogna inventare cose complicate. Bisogna rimuovere ostacoli. Mattarella lo ha spiegato molto bene. Occorrono aiuti concreti e un cambio di mentalità, che naturalmente è favorito dalla presenza dei primi.

Un settore cruciale è quello del lavoro. Le analisi indicano che i giovani italiani quando vanno all’estero i figli, li fanno. In Francia, la laicissima Francia, testimone del fatto che sull’argomento gli steccati ideologici su famiglia e natalità devono essere considerati zero, le politiche familiari sono una priorità da decenni con servizi e tasse favorevoli, con stipendi decenti per i giovani.

In Italia figli e famiglia sono considerati un vincolo e non una risorsa. Solo da noi si chiede alle donne e alle madri come conciliare famiglia e lavoro, perché la conciliazione non riguarda mai, per legislatori e imprenditori, l’organizzazione del lavoro di uomini e donne nel loro insieme. Al contrario si potrebbe non solo migliorare l’efficienza e la competitività delle aziende, ma si sosterrebbe la natalità, la pari opportunità tra uomo e donna, soluzione anche per l’eccessiva rigidità e precarietà del lavoro. Oggi ci sono più soldi di ieri grazie al Pnrr. Basteranno per considerare il futuro una promessa e non una minaccia e cambiare rotta sui bambini, che sapranno sicuramente costruire un mondo migliore del nostro?

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