Norme anti virus
Lega in difficoltà

Nessun partito sta comodo nella maggioranza che sorregge il governo Draghi. Vecchi avversari che devono convivere guerreggiando mentre Draghi governa e va avanti per la sua strada ascoltando solo fino a un certo punto le ragioni della politica. Tutte considerazioni che sono riemerse nella conferenza stampa di giovedì quando il presidente del Consiglio ha detto: «La verifica politica è una cosa che riguarda i partiti, noi andiamo avanti col governo». E già una considerazione del genere mette di malumore qualunque leader che vede sminuita la capacità di influenzare le decisioni del governo e, forse soprattutto, la possibilità di far sapere agli elettori di essere lui il vero «lord protettore» di Palazzo Chigi. Lord che però non c’è dal momento che Draghi si protegge benissimo da solo grazie al suo prestigio internazionale e alla sfida straordinaria per l’Italia costituita dall’uso che faremo dei 200 miliardi che l’Europa ci presta o ci regala.

Insomma, i partiti soffrono. Soffre Letta che vorrebbe tanto dire che Draghi è un po’ come furono un tempo Ciampi, Dini, e poi lo stesso Monti, e cioè il centrosinistra al governo sotto le spoglie dei tecnici. Ma non può: Draghi non gli consente questo tutoraggio. Soffrono i 5 Stelle di Conte e Di Maio che si vedono piano piano smantellate le «loro» riforme: è successo con la giustizia, succederà con il reddito di cittadinanza, ecc. Ma a soffrire più di tutti è Matteo Salvini. Per tante ragioni. Primo, perché lui ha in corso una battaglia all’ultimo voto con Giorgia Meloni per chi comanda nel centrodestra.

La Meloni ha gioco facile: è l’unica all’opposizione e può sparare ogni giorno contro il governo senza dover dimostrare la bontà delle proprie ricette. Viceversa Salvini ha la esigenza vitale di dimostrare che Draghi fa una politica «para-leghista»: sui vaccini, sugli immigrati, sulle pensioni. Purtroppo per lui non è così: il presidente del Consiglio annuncia l’estensione del green pass, anticipa l’obbligo vaccinale, approva l’operato della ministra dell’Interno Lamorgese sugli sbarchi, fa sapere che Quota 100 non sarà più finanziata. E cosa può fare il leader della Lega? Lancia altolà e ultimatum, chiede «cabine di regia», avverte che è la Lega a tenere in piedi la baracca, insomma prova a rientrare in gioco, ma trova nell’interlocutore di Palazzo Chigi molta cortesia ma scarsa soddisfazione. Contemporaneamente i numeri elettorali della Lega non sono più quelli trionfali di uno o due anni fa, e anzi il sorpasso di Fratelli d’Italia sembrerebbe un fatto quasi assodato.

È fatale: così rinascono le voci di rottura interne, addirittura di scissione, di nuovi protagonismi: si fanno i nomi di Giancarlo Giorgetti o di Luca Zaia, per esempio, come rappresentanti di una Lega più di governo che di lotta, magari anche meno in simpatia con la destra sovranista europea o con i no-green pass che invece Salvini coccola. Senza contare le sortite di cavalli sciolti come Claudio Borghi che l’altro giorno ha portato i leghisti a votare contro il pass in commissione parlamentare facendo scatenare un putiferio nella maggioranza.

Per chi non conosce la Lega serve però un’avvertenza. Forse il Carroccio, forgiato da Umberto Bossi, è l’ultimo partito leninista dell’Occidente, e lì dentro quando c’è un capo non si discute. Lo dice anche Draghi: «La Lega ha un leader e si chiama Matteo Salvini». Difficile ipotizzare rotture, scissioni o cose del genere. Però attenzione: c’è il dato elettorale che preoccupa e l’attivismo della Meloni che irrita. Matteo deve sbrigarsi a ritrovare il suo tocco fatato, quello che lo portò dal niente che aveva ereditato al 30% dei voti delle ultime Europee. Senza quei numeri e senza poter dimostrare di essere veramente l’architrave del governo, anche nel partito leninista prima o poi si potrebbero scorgere delle crepe qua e là.

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