Pd giù, se la colpa è il neoliberismo

Italia. Se non è una nuova forma di autolesionismo poco ci manca, perché la decisione di congelare il pletorico Comitato che avrebbe dovuto riscrivere il Manifesto dei valori del Pd, aumenta il vuoto nel quale il principale partito di opposizione si è buttato a capofitto dopo le elezioni di settembre.

Il vecchio Manifesto, così, è ormai delegittimato, e quello nuovo chissà quando prenderà forma. Peggio: sarà anch’esso materia da discutere nei gazebi in cui il Congresso verrà celebrato, e dunque competenza delle «non» correnti che si contenderanno la segreteria. I guai, del resto, sono già stati procurati, perché il breve dibattito e il corredo di dimissioni dal Comitato hanno fatto emergere temi a dir poco sconcertanti. Uno per tutti, l’aver individuato finalmente il colpevole del progressivo calo del partito alle urne. Non gli errori politici, non l’aver tirato la volata, ora diventata vincente, del mozzicone contiano degli ex grillini, non l’aver governato a tutti i costi. No, il Pd ha perso perché ha abbracciato il neoliberismo, colpevole evidentemente anche dei successi, dal 33% di Veltroni al 40% di Renzi. Per uno che è stato ministro più a lungo di tutti, Andrea Orlando, dire neoliberismo non bastava, e se l’è presa con l’ordoliberismo, quasi un orco più cattivo, mentre è semplicemente una corrente di pensiero minoritaria che appartiene se mai alla linea del liberalismo sociale.

Ma dov’è oggi l’ordoliberismo? Se è un argomento per il Manifesto dei valori, sembra cosa un po’ velleitaria. Se invece, come paventato da alcuni anche all’interno del partito, la critica è un modo indiretto per smantellare l’economia di mercato, bisognerà spiegarlo a mezzo Occidente e all’Ue, dei cui trattati libertà di mercato e concorrenza sono i pilastri. È un po’ il sospetto di Angelo Panebianco, che in un suo recente intervento su «Il Mulino» va oltre, sottolineando che dietro tutto questo c’è un largo ceto intellettuale di orfani del socialismo, cioè della «grande coperta ideologica che un tempo alimentava e legittimava la polemica anti-capitalista».

Conviene davvero, al Pd essere «pentito» del proprio riformismo e avventurarsi su terreni davvero non molto attuali? In realtà, per parlare seriamente di questi temi non si può usare un tweet. Se non si ha voglia di leggere il dibattito sul liberismo tra Croce ed Einaudi, non mancano libri recenti molto densi, come quello di Vittorio Emanuele Parsi, professore della Cattolica, su «naufragio o cambio di rotta per l’ordine liberale» che si comprende già dal titolo non essere tenero verso il neoliberismo. Ma per Parsi tutta l’onda montante dell’ordine internazionale liberale è finita almeno dal 2007-2008, e il Pd era appena nato: è lì che, secondo il docente, il mercato ha mostrato di essere il peggior nemico di se stesso. Una tesi da discutere, ma non ai gazebi, please.

Soprattutto, parlare nell’Italia di oggi di egemonia neoliberista è quanto meno surreale. Siamo il Paese con la maggiore presa della mano pubblica, con un debito al 150%, Ilva e Mps di ritorno allo Stato, ben 29 bonus vigenti, 12 condoni appena approvati, metà delle pensioni erogate senza contributi corrispondenti, una minoranza di contribuenti che paga sanità e servizi a tutti gli altri. Nonché l’Italia delle mille municipalizzate (gestite da sindaci Pd). Sono tutti temi che farebbero rivoltare nella tomba i padri del liberismo e ancor più del liberalismo. Neoliberismo allora l’industria 4.0, il jobs act? Peccato che l’innovazione abbia guidato il rimbalzo, e che i posti di lavoro a tempo indeterminato siano cresciuti. O forse i guai li hanno provocati le liberalizzazioni di Bersani, il vero pericoloso neoliberista occulto?

Meglio davvero interrompere un dibattito che stava degenerando, ma allora qualcuno restituisca il rispetto a chi ha scritto quel primo Manifesto, da Reichlin a Mattarella, a Pietro Scoppola, a Valerio Zanone.

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