Pensioni tra realtà e propaganda

ITALIA. Le pensioni sono un tema vitale sia nella dimensione privata di 12 milioni di persone che in quella pubblica per la tenuta dei conti. La spesa 2023 sarà di 318 miliardi (43 in più del 2022). Per capirsi: la sanità costa 134 miliardi, l’istruzione 71.

Con le pensioni insomma non si scherza. Eppure, nella disordinata preparazione della legge di Bilancio, proprio quella è stata la sensazione: una commedia poco seria su chi è più bravo e generoso, alle spalle delle inquietudini di persone anziane. Di questa manovra con pochi miliardi (25), due terzi a debito, se fai il bullo a favore di qualcuno, è matematico che ci sia qualcun altro che ci rimette. Per sapere come andrà a finire davvero questa storia dovremo aspettare dicembre, ma se, per anticipare la pensione, non si vuole quota 104 (41 anni di contributi e 63 di età) e si resta a quota 103 (41+62), il nuovo costo è di almeno 2 miliardi. Per trovarlo sono dolori, e allora si taglia la rivalutazione del costo della vita ai «ricchi», che ricchi non sono, perché hanno una pensione tra 2.100 e 2.627 euro (lordi).

Inoltre, i pensionati 2024, a differenza di quelli 2023, che lo avevano fatto gratis, dovranno sottoporsi ad un taglio dell’assegno.

Non bastando ancora (perché ogni modifica si ripete per sempre), si entra nel terreno minato del diritto acquisito pensionistico. La retroattività di una norma è la più inaccettabile violazione dello Stato di diritto. Si vorrebbe infatti andare oltre il limite invalicabile del 1996, cambiando la tabella che garantiva la remunerazione promessa dallo Stato per i contributi versati fino a quell’anno.

La cosa riguarda tra l’altro 700mila dipendenti pubblici, 30mila già nel 2024, cui con altri espedienti (spostamento di «finestre», non spieghiamo qui cosa sono, per carità di patria) si impedirà la fuga nei mesi precedenti, spiazzante perché si tratta di medici, insegnanti, funzionari dei servizi pubblici.

Tutte queste complicate casistiche, perché? Per poter dire che si «abolisce» la Legge Fornero, cosa non vera. La legge, più volte data per morta, rimane in vigore (ci vien da dire: per fortuna) e se mai, nell’ottica demagogica di queste forsennate battaglie, la si va a peggiorare.

Un sistema pensionistico sta in piedi se la proporzione tra lavoratori in attività e in quiescenza è almeno dell’1,5%. L’Italia sta sotto l’1,4%, andrà rapidamente all’1,3% e il trend conduce diritti alla parità numerica tra lavoratori e pensionati, ma allora tutto salta perché non bastano i contributi di chi lavora per pagare chi ha finito. Ci salveranno solo gli immigrati. Non c’è bisogno di essere geni statistici per capire che chi ha cominciato a lavorare adesso, e chi sta per farlo, già rischia di vedere il collasso. Si farà spiegare da qualcuno cosa è successo in questi nostri anni: contestare per propaganda un principio semplice semplice, perché la Fornero fa l’unica cosa possibile, non toccare il passato ma il futuro, allungando l’andata in pensione in funzione della crescita dell’età media.

Un governo che ogni momento ricorda che durerà altri 4 anni, dovrebbe avere il tempo, la possibilità, la responsabilità di essere chiaro e coraggioso. Sarebbe un grande merito. Giorgetti e la stessa Meloni almeno non nascondono i problemi, ma Tajani insegue i 1.000 euro delle pensioni minime (se così fosse, cosa diranno quelli che hanno pagato contributi per avere meno di 1.000?) e Salvini nega la realtà, sbuffa e contesta i numeri che il suo collega di partito gli mostra, tasse sulla casa comprese.

E per fortuna che sembra cancellata la norma che con un click toglieva denaro dai conti correnti dei non pagatori, cioè la perfetta applicazione di quella sciagurata frase «mettere le mani i tasca agli italiani» inventata proprio dal centrodestra.

Almeno sulle pensioni smettiamola con le promesse impossibili. Si può anche tollerare che si racconti in giro di stipendi aumentati, per la proroga per un solo anno dell’ultimo taglio al cuneo fiscale. Ma si tratta di pochi euro al mese, gli altri sono la somma di cose già fatte dai tempi di Letta a quelli di Meloni.

Almeno è una vanteria su una cosa buona, ma lasciamo stare le pensioni. Su quelle non si scherza.

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