Se persino i ragazzini
le suonano a Trump

Affaticato, con le spalle curve e la cravatta a penzoloni, lo sguardo appannato, una smorfia sul volto, incapace di reagire alla presenza dei fotografi. In pratica, un toro infilzato dalle banderillas, stordito dal rumore della folla, ormai pronto per l’affondo del torero. Donald Trump in questi anni ci aveva regalato molte immagini di sé. Ma mai una che trasmettesse un così drammatico senso di impotenza come quella scattata al suo rientro dal comizio di Tulsa. La vicenda è esemplare del momento

politico del presidente più contestato della storia degli Usa. Doveva essere il giorno del grande ritorno, del bagno di folla in uno Stato conservatore come l’Oklahoma. Così sicura del successo, era la squadra che gestisce la campagna elettorale di Trump, da fissare in un primo tempo il comizio proprio per il 19 giugno, il Juneteenth, la data che commemora la liberazione degli schiavi, in una città che nel 1921 era stata teatro di un massacro di neri da parte di razzisti bianchi. La cosa aveva sollevato un mare di polemiche e provocato lo slittamento al giorno dopo.

Ma il flop è arrivato comunque: attesi 100 mila sostenitori, presenti 19 mila, quando era stato persino approntato un palco all’esterno per un supplemento di discorso, nella convinzione che la folla sarebbe stata strabordante. Oltre al danno la beffa. Perché il tonfo di Tulsa è stato costruito anche dai ragazzini che usano il social Tik Tok e che si sono passati parola per accaparrarsi migliaia di prenotazioni gratuite all’evento, senza alcuna intenzione di partecipare ma al solo scopo di occupare posti e poi lasciare vuote le gradinate. Gli organizzatori negano e dicono di aver scremato in anticipo le prenotazioni «vere» da quelle «finte». E non si accorgono di aumentare il danno: se non sono stati gli attivisti di Tik Tok a mandare a monte il raduno pro-Trump, vuol dire che il sostegno al presidente è scarso di suo, senza bisogno di «aiutini». E in ogni caso è ormai chiaro che Trump, il re dei tweet, ha un problema coi social, compresi quelli più tradizionali come Twitter e Facebook. E che il grande comunicatore, il divo della Tv diventato politico, ha ormai un problema enorme con i media.

Trump pare un pugile suonato. Nel febbraio scorso, cioè negli ultimi giorni dell’era pre-Covid, l’economia Usa tirava come un treno, la Cina barcollava sotto l’offensiva daziaria, l’Europa era intimidita, la Russia bloccata e il rivale Joe Biden balbettava. La rielezione di Trump pareva quasi certa. Oggi pare più che incerta. Il ricordo del 2016, però, e degli infiniti «esperti» che cantarono con troppo anticipo la vittoria di Hillary Clinton, ci invita a esercitare la prudenza. Gli adolescenti di Tik Tok possono organizzare scherzi maliziosi e provocare brutte figure ma non vanno a votare. Ed è improbabile che i loro genitori siano sostenitori di Trump.

Il presidente punta alla maggioranza bianca (72% della popolazione), che è per natura «silenziosa» ma al momento del voto molto più partecipativa delle minoranze di qualunque colore. E poi c’è Joe Biden. Per otto anni è stato il vice di Barack Obama, distinguendosi soprattutto per la gaffe. Di lui non si ricorda, in questi ultimi mesi, un’idea nuova, una proposta vincente. E la campagna elettorale, complice il lockdown, deve ancora entrare nel vivo, con il suo corredo di sorprese e colpi bassi. Se le cose procedono così, sarà Trump a perdere la presidenza e non Biden a vincerla.

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