Più dialogo con i cittadini riformando i partiti e la legge elettorale

Perché i parlamentari hanno così ripetutamente e perfino stucchevolmente applaudito il discorso pronunciato da Mattarella in occasione del suo giuramento? Molti tra loro in effetti sapevano che quel «bis» era costituzionalmente assai discutibile, visto che, con dubbia coerenza e credibilità, oggi vorrebbero modificare la Costituzione impedendo, per il futuro, secondi mandati presidenziali. Sicuramente, l’hanno fatto per l’affidabilità e l’alto senso di responsabilità del Presidente, che riconosce al Parlamento una dignità di cui non sempre i parlamentari si rivelano all’altezza. Maliziosamente si potrebbe pensare che quegli applausi svelassero un diffuso sollievo per il prolungamento della legislatura, per molti l’ultima. Vorrei comunque credere agli applausi seguano scelte coerenti.

In un punto, in particolare, in cui, in modo abbastanza (ma mai troppo) esplicito, il Presidente ha posto il problema dei partiti: «La qualità stessa e il prestigio della rappresentanza dipendono, in misura non marginale, dalla capacità dei partiti di esprimere ciò che emerge nei diversi ambiti della vita economica e sociale, di favorire la partecipazione, di allenare al confronto. I partiti sono chiamati a rispondere alle domande di apertura che provengono dai cittadini e dalle forze sociali. Senza partiti coinvolgenti, così come senza corpi sociali intermedi, il cittadino si scopre solo e più indifeso. (…) Il Parlamento ha davanti a sé un compito di grande importanza perché, attraverso nuove regole, può favorire una stagione di partecipazione». È qui posto il tema dei temi: lo scollamento tra partiti e cittadini e il riverbero di questo distacco sulla qualità e sul senso stesso della rappresentanza. Bisogna essere chiari e netti: il ripristino dei necessari canali fluidi di dialogo tra cittadini e partiti passa da due riforme ineludibili.

La prima, di attuazione costituzionale (art. 49), deve costringere i partiti a darsi un’organizzazione interna democratica (e cioè, ad esempio, a selezionare i candidati mediante coinvolgimento vincolante degli iscritti). A questa necessità costituzionale i partiti sono sfuggiti per decenni, agitando lo spettro dell’interferenza dello Stato nell’autonomia dei partiti. Le riforme sinora intervenute hanno eluso il problema, prevedendo solo requisiti di trasparenza, ma non di democraticità dell’organizzazione partitica. La seconda riforma, che non può essere confusa con la prima, riguarda la legge elettorale, con cui occorre ristabilire un vero potere di scelta, da parte degli elettori, non solo del partito, ma dei candidati. Solo così si può riattivare un circuito di responsabilità ora nullo. Il Presidente che poteri ha per spingere queste riforme? Non quello di approvarle («non compete a me indicare percorsi riformatori da seguire. Ma dobbiamo sapere che dalle risposte che saranno date a questi temi dipenderà la qualità della nostra democrazia»), ma non può e non deve smettere di stimolarle con messaggi pubblici e inequivoci alle Camere, richiamandole alla loro responsabilità. Questo ruolo di impulso dell’attuazione costituzionale non travalica affatto i poteri presidenziali: anzi, ne è parte fondamentale. Ce ne sarà bisogno visto che i primi commenti delle forze politiche al discorso hanno battuto sin troppo su principi che possono risultare vaghi (la dignità) o sui problemi di altri organi (la Magistratura). Presidente e cittadini, ciascuno dalla propria posizione, non devono stancarsi di richiamare continuamente e severamente i partiti rappresentati nelle istituzioni, auto-referenziali ed oligarchici, ad essere strumenti di democrazia. Non si può accettare che l’unica via d’uscita del disagio crescente sia l’astensionismo che, in fondo, non farebbe che lasciare il campo libero a queste oligarchie.

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