Quando Washington
dà lezioni a Roma

Dopo la crisi del 2008 l’amministrazione Obama finanziò una consistente spesa pubblica aggiuntiva in deficit, aiutando molti dei settori più in difficoltà e prevedendo ristori per le classi più povere. Interventi ancor più incisivi sono stati decisi da Joe Biden, sia per limitare i danni provocati dalla pandemia, sia per dar seguito alle istanze di quanti, durante la sua campagna elettorale, avevano ritenuto l’azione di Obama troppo debole al punto da aver favorito l’ascesa di Donald Trump. In concreto, il presidente Biden si è proposto di costruire un Paese post-Covid profondamente diverso da quello che nel 2020 è stato investito dalla pandemia. In questa prospettiva, si è da subito differenziato da Trump manifestando una visione diversa rispetto ai problemi dell’immigrazione, ritenendo ad esempio inutile proseguire con la costruzione del muro al confine con il Messico, cercando piuttosto di porre in essere un’efficace collaborazione politica tra i due Paesi.

Ha inoltre aderito agli accordi di Parigi sul clima, dai quali si era ritirato Trump, riconoscendo le responsabilità degli Usa che contribuiscono per il 30% all’inquinamento mondiale. Ha quindi messo in atto un’innovativa visione di politica economica incentrata su massicci investimenti pubblici sulle infrastrutture; consistenti investimenti destinati ad opere di manutenzione del territorio allo scopo di prevenire i ricorrenti disastri; interventi fiscali che tengano conto dell’enorme crescita delle diseguaglianze anche conseguenti alla pandemia. Il pacchetto d’interventi contiene un aumento della spesa per il Welfare di 1.800 miliardi di dollari, che sarà quasi interamente finanziata da un aumento delle tasse per 1.500 miliardi sugli americani più ricchi, così come la cancellazione di trattamenti fiscali privilegiati per le plusvalenze (i capital gain) e i dividendi per chi guadagna oltre un milione all’anno. Si tratta d’interventi che rappresentano una colossale misura di stimolo per l’economia, ma che hanno anche un evidente scopo ridistributivo, in quanto sono in gran parte finanziati con incrementi nella progressività del sistema fiscale. È la prima volta che il più importante sistema capitalistico al mondo, seguendo i canoni dell’economia classica, si preoccupa di avere più crescita realizzando al contempo una maggiore equità. Una lezione che dovrebbe essere di stimolo a iniziative analoghe in tutti i Paesi più industrializzati, anch’essi caratterizzati da una preoccupante crescita delle diseguaglianze.

La svolta economica di Biden non si ferma qui. Il 31 marzo scorso ha annunciato una decisa lotta ai paradisi fiscali, proponendo ai Paesi del G20 - presieduto quest’anno da Draghi - di stabilire una minimum tax del 21% sui profitti esteri di tutte le multinazionali e, conseguentemente, di prevedere che una multinazionale che paghi, ad esempio, un’imposta del 12% in un paradiso fiscale, debba corrispondere al fisco del proprio paese la differenza tra l’aliquota del 12% e quella del 21%.

Rispetto a iniziative di tale potenza e giustezza il nostro Paese si mostra pericolosamente immobile. È bastata una timida proposta avanzata dal segretario del Pd Letta di una dote per i diciottenni di 10.000 euro pagata dall’1% della popolazione più ricca, per indurre Salvini, e non solo lui, a evocare il ricorrente pericolo di mettere le «mani nelle tasche degli italiani». Sorprendentemente lo stesso Mario Draghi ha, in qualche misura, avallato questa posizione. Ha anche stupito, e non poco, come la prima a muoversi a favore della proposta di Biden sui paradisi fiscali sia stata la «trumpiana» Giorgia Meloni la quale, richiamando la necessità di una «governance della globalizzazione», ha presentato in Parlamento una mozione con la quale chiede al governo di appoggiare la riforma avanzata dalla Casa Bianca e di procedere successivamente alla riduzione in Italia dell’imposta sul reddito delle società (Ires) al 21%. Insomma, tra le stranezze della nostra politica c’è anche quella di una destra dichiaratamente sovranista, consapevole più di altri che per difendere gli interessi nazionali sia oggi quanto mai opportuno favorire accordi e fare riferimento a un perimetro più ampio di quello nazionale.

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