Quirinale
Il Pd cerca
di allargare
il consenso

Alla riunione di direzione del partito Enrico Letta ha irrigidito ulteriormente la posizione del Pd sulla candidatura di Silvio Berlusconi che il centrodestra ha formalizzato l’altroieri per iscritto al termine del suo vertice nella villa romana del Cavaliere. Una candidatura, si badi bene, che è sottoposta alla verifica dei numeri necessari all’elezione a Capo dello Stato del fondatore della coalizione, numeri che peraltro in questo momento non ci sono. Ed è proprio da qui che è partito Letta per motivare ulteriormente il suo no alla candidatura più divisiva che si potesse pensare.

Non ci sono i numeri perché nessuno oggi ha la maggioranza sufficiente per eleggersi il «proprio» presidente anche a partire dalla quarta votazione, quella che richiede un quorum di 505 voti, cioè la maggioranza assoluta - e non dei due terzi - degli aventi diritto, che sono 1.009. Dunque non esiste un «diritto» del centrodestra ad avere un presidente ad esso affine. È vero che la condizione di vantaggio esiste, ed è immaginabile che Berlusconi, Salvini e Meloni vogliano fare un tentativo dopo che gli ultimi presidenti sono stati tutti espressi da aree liberal-riformiste, ex comuniste, cattolico democratiche.

A questo tentativo Letta risponde con una proposta: troviamo una candidatura comune con la maggioranza più larga, quantomeno sovrapponibile a quella che attualmente regge il governo Draghi. Dopodiché con la stessa maggioranza firmiamo un patto di legislatura che consenta di arrivare con questo governo allo scioglimento naturale delle Camere nel 2023. È chiaro che Letta non chiarisce, né potrebbe, chi questo governo dovrebbe presiederlo: Draghi nell’ipotesi in cui rimanga a Palazzo Chigi o qualcun altro se Draghi salirà al Colle? L’unico punto su cui il segretario del Pd si sofferma è che la «carta Draghi» non può essere bruciata in ogni caso: non ci si può disfare dell’italiano che ha più prestigio nel mondo e che è lui stesso una garanzia per i mercati e per la Commissione europea che ci ha assegnato i 209 miliardi con cui finanziare il Pnrr. Letta non chiarisce ma è proprio questo il nodo: Draghi avrebbe i numeri per diventare presidente, e i partiti che oggi sono al governo saprebbero costituire un governo anche senza di lui per arrivare al 2023? A queste domande oggi nessuno è in grado di dare una risposta. Certo è però che la proposta del centrodestra sembra irrigidire le posizioni ostacolando le trattative. È pur vero che siamo alla prima mossa, e tante altre ne seguiranno. È chiaro che il Cavaliere si deve essere innamorato dell’idea di diventare presidente, ma è il primo a sapere che i voti necessari non ci sono, e che i suoi due alleati gli stanno dicendo sì più per forza di cose più che per autentica convinzione. Forse, partendo da queste realistiche considerazioni, Berlusconi stesso vorrà giocare tatticamente sul proprio nome ritirandolo al momento opportuno per far pesare l’appoggio ad un candidato «terzo» presentandosi così come un king maker.

Che sarebbe un ottimo risultato per l’ultraottuagenario leader che viceversa difficilmente resterebbe indenne dopo una clamorosa bocciatura d’aula. Pd e M5S alle prime tre votazioni o voteranno scheda bianca o indicheranno un candidato di bandiera scelto di comune accordo. Si era parlato di Anna Finocchiaro, mancata presidente del Senato nella scorsa legislatura ma non è ancora certo. La scelta di abbandonare l’aula per un ipotetico «Aventino» è invece criticata da molti nelle stesse fila del Pd e dei grillini. Del resto, come è noto, l’Aventino non portò bene ai suoi ideatori. Ma quelli erano altri tempi.

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