Salario minimo
Non solo numeri

La questione del salario minimo obbligatorio sembra semplice da risolvere, per certi versi sacrosanta, trattandosi di mettere fuori legge livelli scandalosamente bassi. Ma qual è il punto di riferimento giusto? I 5 Stelle, a cui il salario minimo piace, perché coerente con il loro dirigismo sociale, parlano di 9 euro lordi, corrispondenti a circa 7 netti. In Germania, Scholz aveva indicato nel suo programma elettorale il livello 12 euro. Nel contratto metalmeccanico è praticamente 10 euro. Tutti d’accordo, comunque, sul fatto che stare sotto questi parametri è qualcosa di offensivo per la dignità delle persone e del lavoro, anche se questo accade largamente nella prassi. I riders rischiano anche la pelle con le loro bici nel traffico per 3-4 euro. Fin qui, dunque, sembra tutto semplice e chiaro. Con una legge e relative sanzioni si farebbe giustizia e chiarezza. Ma invece proprio qui cominciano i problemi. Intanto perché l’85% dei lavoratori è garantito da contratti migliori e fare una legge per il 15% è appunto da dirigisti.

Sindacati ed imprese, da noi, l’hanno sempre avversato, e l’ultimo tentativo affossato è stato quello del governo Renzi. Contrari i sindacati perché ritengono, con apertura alle logiche di mercato, che sia meglio affidarsi alla libera discussione delle parti, dato che punto fisso di qualunque contratto è proprio il minimo salariale. Persino imprenditori un po’ rudi come Amazon hanno appena negoziato stipendi di ingresso in crescita dell’8%. Alcune proposte di legge nate a sinistra vogliono proprio questo: che sia trasferito a tutti l’accordo raggiunto tra le parti sociali, e si dovrebbe se mai garantire meglio la rappresentanza, visto che i contratti sono diventati 985.

Il Pd è sempre stato contrario ad una regolazione dall’alto, ma nel nuovo clima di aiuto verso i poveri 5 Stelle in difficoltà, Letta ha cambiato posizione, e anche Landini per la Cgil ha dato un mezzo via libera. Contrari come ieri Cisl e Uil, contraria Confindustria. Si parla solo di una intesa Pd-M5S-Cgil, ma detta così diventa un vicolo cieco.

La previsione è che anche questa proposta vada a finire in lista di attesa: nel cortocircuito delle mille urgenze tra Pnrr e legge di bilancio, è già tanto se resta all’ordine del giorno. Il problema vero, poi, è ben più largo di una discussione sui minimi (quando c’è sfruttamento, ci sarebbero le leggi penali), perché è davvero la struttura del salario il vero punto da risolvere, guardando in alto e cioè a dinamiche che alzino il livello delle medie salariali, in Italia troppo basse.

La componente fiscale di una busta paga si sa che raddoppia il costo del lavoro. Partendo dal cuneo fiscale, forse il problema dei minimi perderebbe rilievo e si potrebbe arrivare ad aggredire la cosa veramente più importante e cioè la revisione di un fisco che penalizza il lavoro. Il quale lavoro non è solo salario. Una buona contrattazione ha introdotto negli anni voci tutt’altro che di contorno, ben più importanti di un numero. Nei grandi contratti, ad esempio, la voce welfare ha ottenuto ampi risultati, al netto della busta paga vera e propria.

Il primo punto risolutivo è dunque quello di una buona contrattazione. Nelle sue articolazioni ormai sempre più vicine al luogo di lavoro, è la questione che può meglio garantire i lavoratori, per poi dare al sistema quello che drammaticamente manca: la produttività. La mano pubblica, come convitato essenziale potrebbe partecipare proprio per garantire una revisione fiscale orientata agli interessi generali (e combattere il lavoro nero). Meglio che dare i numeri, oltretutto da aggiornare ogni anno. Certo, diventa essenziale la lungimiranza delle parti sociali, perché il ricorso al salario minimo sarebbe la prova del loro fallimento.

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