Se l’amicizia americana
ci allontana dall’Europa

Se Salvini e Di Maio sono i gemelli diversi del populismo, il vice premier leghista e Trump paiono gemelli forse compatibili. Mesi fa il ministro dell’Interno, in visita a Mosca, aveva detto di trovarsi meglio lì che a Bruxelles e oggi, presa qualche distanza dalla Russia, si deve sentire nella propria dimora ideale a Washington. Che un politico italiano si ritenga in casa di amici in America è del tutto normale e storicamente provato. Ma la diversità di Salvini è che non si tratta di una sintonia necessaria, buona per tutte le stagioni politiche e per qualsiasi inquilino della Casa Bianca: non s’identifica con i valori dell’ammiraglia liberaldemocratica, piuttosto con il profilo oltranzista e con la tempra spiazzante del trumpismo, con la sua ostilità all’Europa comunitaria.

Il presidente americano e l’esponente italiano non si conoscono, a parte un fuggevole, e variamente discusso, incontro nell’aprile 2016 durante la campagna elettorale negli Usa. Ieri non c’è stato incontro e del resto non era in agenda. Niente photo opportunity, ma non è una diminutio. In realtà Salvini è stato accolto con tutti gli onori e con un protocollo superiore al rango di ministro dell’Interno (l’omologo sarebbe il capo dell’Fbi), ricevuto dal vice presidente Mike Pence e dal segretario di Stato Mike Pompeo. I consiglieri più vicini a Trump e, quanto a Pompeo, un mastino in simpatia ideologica con la destra radicale.

Quasi a dire che, entrato da vice premier, Salvini se ne possa uscire riconosciuto e accreditato da premier in pectore di un governo tuttora in bilico ma sempre più a trazione leghista. Per dirla con le sue parole: «L’Italia è il primo, più solido interlocutore degli Usa nell’Ue». Del resto s’è trattato di accogliere il miglior alleato europeo di «questa» America, investendo sull’interlocutore privilegiato dell’amministrazione Trump insieme a Farage, il capopopolo della Brexit, quest’ultimo elogiato nei giorni scorsi e sollecitato dal capo della Casa Bianca a proseguire nella sua opera incendiaria. Questo club selettivo, dove ognuno punta sui propri interessi giocando sullo sfascio collettivo, ha nel mirino l’Ue e infatti il sovranismo europeo si presta a passare per il cavallo di Troia di Trump. Salvini, in America, ha allineato un’improponibile «Italia First» all’«America First», quando ha precisato di far parte di un governo «che in Europa non si accontenta più delle briciole» e che con l’Ue tratteremo «da pari a pari senza timori reverenziali». Spalleggiato in tempo reale da Alberto Bagnai, presidente della Commissione Finanze del Senato e soprattutto l’antieuropeista che la Lega vorrebbe commissario a Bruxelles, spintosi a parlare di «atteggiamento ricattatorio e mafioso» di Bruxelles nei nostri confronti. Chiude il trittico Conte che, nella lettera alla Commissione europea che dovrà decidere sulla procedura d’infrazione per il nostro eccessivo debito pubblico, si oppone al «primato della finanza», un lessico famigliare del grillismo prima ora.

Nel momento in cui le voci europee più ragionevoli ci chiedono di investire nella fiducia, noi gonfiamo il petto con un piede già fuori dall’euro. In questo teatro mediatico il profilo di un ipotetico «partito americano» amplifica la distanza fra Italia e i partner europei, per quanto non sia tutto oro quel che luccica fra Italia e Stati Uniti. La diplomazia americana non si risolve nel tweet di Trump e rimane pur sempre una complessa e celebrata macchina, capace nel gioco duro quando è in palio il trofeo della politica estera, cioè l’interesse nazionale a scarpe chiodate. Salvini, l’uomo nuovo e un animale politico da conoscere meglio agli occhi dell’America, ha qualcosa da farsi perdonare, al di là delle sue rassicuranti dichiarazioni di ieri sera: i rapporti con Putin (peraltro senza più il tocco magico di un tempo e che sarà in Italia ai primi di luglio) e quel che sta dietro, cosa significa l’accordo con la Cina sulla Via della seta (siamo l’unico Paese europeo ad aver sottoscritto l’accordo), le ambiguità sul Venezuela. Più i dossier dazi, Iran, Siria, Afghanistan e Libia dove l’America ci ha lasciati soli sostenendo, insieme con Macron, il generale Haftar contro il governo Serraj riconosciuto dalla comunità internazionale.

I conti non tornano e se al nostro vice premier i vertici americani devono aver chiesto chiarezza, analogo atteggiamento è richiesto da quei pezzi d’Italia indisponibili all’avventurismo anti europeo. Perché volevamo essere i primi e siamo gli ultimi in Europa. Isolati, con le amicizie sbagliate e neppure riconoscenti, vedi l’ungherese Orban. Non conosciamo il destino della messa sotto inchiesta dell’Italia, che potrebbe costare cara ai contribuenti italiani, e mascheriamo l’handicap di dipendere dalla clemenza altrui con le trombe di un orgoglio degno di miglior causa. Non ci resta che l’amico The Donald, ammesso e non concesso che sia proprio tale, l’ultima spiaggia di un girovagare con parole grosse e passo malfermo, senza bussola. Perseverando, in ogni caso, in quei fidanzamenti dove sai cosa lasci ma non cosa trovi.

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