Situazione confusa
Maggioranza cercansi

E adesso si tratta di vedere se e come Mario Draghi (insieme a Sergio Mattarella) riuscirà a costruire il consenso parlamentare per mettere in piedi il suo governo «di alto profilo» e «senza riferimento ad alcuna formula politica» come recita l’incarico ricevuto dal Capo dello Stato. Sulle prime la situazione, come dice Goffredo Bettini, è confusa: la rapidità con cui il Quirinale ha chiuso il tentativo «Conte-ter» e ha aperto quello del governo «del presidente» ha messo in difficoltà tutti, soprattutto coloro che non avevano un piano B rispetto alla semplice riproposizione del governo giallo-rosso messo in crisi da Matteo Renzi. Il Pd di Zingaretti per esempio, sembra proprio che non se lo aspettasse, è stato preso in contropiede e ha reagito come vogliono la sua storia e la sua natura, con senso di responsabilità.

È sicuramente per questo, ma anche per non rimanere scoperto e in solitudine, che il segretario del Pd ha chiesto un confronto con i Cinque Stelle e LeU. In particolare con i grillini con i quali il Pd vuole salvare la prospettiva di una prossima alleanza elettorale che non si realizzerebbe dopo una divisione così importante come quella che si potrebbe realizzare su Draghi. Ma il M5S, come volevasi dimostrare, è talmente diviso da rischiare lo sgretolamento. C’è chi dice: mai sosterremo Draghi esponente dell’odiata casta internazionale (Di Battista, Taverna, Grillo), e chi invece usa parola più caute: «Il problema non è Draghi ma la natura del governo che per noi deve essere politico» (Di Maio, Buffagni e tutta l’ala «governista»).

L’impressione però è col passare delle ore le cose si siano messe in movimento: dal «non possumus» di Vito Crimi pronunciato cinque minuti dopo la notizia dell’incarico all’ex presidente della Bce, alla dichiarazione di Di Maio sono passate molte ore, quelle evidentemente necessarie all’ex capo politico per uscire dall’imbarazzo e decidere che fare. Che fare in termini anche personali: non essere più ministri è certamente una cosa dolorosa ma dire no a Draghi significa, per l’Europa, entrare in un cono d’ombra che mai verrà dimenticato. Dunque Di Maio sta cercando di barcamenarsi senza spaccare il Movimento più di quanto non lo sia ora. L’unica cosa che veramente unisce i pentastellati è la paura delle elezioni: da lì si partirà per trattare con il presidente incaricato il quale dirà ai suoi interlocutori che, oltre il suo tentativo, ci sono solo le elezioni anticipate (ma con lui in carica, anche con un governo dimissionario).

Quanto al centrodestra, le posizioni sono anche qui variegate. Berlusconi e Forza Italia non lo ammettono ancor ma sono già pronti a dire sì a Draghi. Matteo Salvini tituba e insiste sulle elezioni, però aggiunge di «non avere pregiudizi»: la ragione del suo ondeggiare è che l’ala Giorgetti-Zaia-Fedriga spinge perché la Lega entri in partita mentre gli elettori del Nord hanno fretta di vedere gli aiuti del Recovery Fund sulle loro imprese. Chi non ha dubbi è Giorgia Meloni: il suo no all’incaricato è senza appello. Al massimo si potrebbe spingere ad una benevola astensione iniziale ma solo se insieme a tutti gli alleati, nessuno escluso.

Infine Renzi: il senatore di Rignano si è preso molti insulti ma ha ottenuto quel che voleva sin dall’inizio: fuori Conte e dentro Draghi. La sua spericolata tattica gli ha regalato una centralità politica del tutto sproporzionata rispetto all’esigua forza di Italia Viva, e questo è già moltissimo. Per concludere la domanda resta: riuscirà Draghi a costruirsi una maggioranza? Il lungo (e irrituale) colloquio con Giuseppe Conte forse ci dice di un tentativo di coinvolgimento nel nuovo governo del presidente dimissionario. In fondo anche l’avvocato Conte è «un tecnico».

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