Stop tra Mps e Unicredit.
Chi pagherà il conto

Il ministero dell’Economia e Unicredit hanno interrotto i negoziati sulla cessione del Monte dei Paschi di Siena, la banca più antica al mondo, con origini rinascimentali. Ma per molti non è una tragedia, anzi forse è addirittura meglio. Ora lo Stato, che ne controlla il 64 per cento, naufragata l’acquisizione con il colosso bancario italiano, deve guardare a soluzioni alternative, tra cui un piano «stand alone», ovvero un progetto per rendere la banca indipendente, scongiurando l’incorporazione con un effetto «spezzatino». Oltretutto Mps sta vivendo una fase positiva, con la semestrale che ha portato a 200 milioni di utili. Resta sempre nel cassetto il piano messo in piedi dall’amministratore delegato, mai però approvato dalla Bce, l’altro attore-arbitro di tutta questa vicenda, come al solito arcigna con i conti delle banche nostrane ma molto più comprensiva con i guai delle sorelle tedesche fagocitate dalla crisi dei bond spazzatura dei mutui subprime.

Un piano che prevede 2,5 miliardi di euro di aumento di capitale (cifra minima, c’è chi sostiene che ce ne vorrebbe il doppio) per far fronte alle casse vuote e ai costi di ristrutturazione necessari per rimettere in sesto il conto economico, con il ritorno all’utile nel 2023. Ma il piano contempla anche 2.670 esuberi.

La storia di questo istituto, che è pur sempre il quarto italiano, è fatta di grandi imprese, ma anche di sbagli colossali e ambizioni pretenziose legate a complessi di superiorità poco attenti alla sostenibilità dei bilanci. Alla fine ne pagheranno il prezzo i suoi dipendenti, vittima di quella maledetta equazione tra margine operativo e numero del personale, come sempre, anche se fortunatamente le normative di tutela, gli scivoli pensionistici, le buonuscite, gli interventi del fondo di categoria, ammorbidiranno il tutto.

Uno degli errori è stato quello di slegare la banca dalla sua città e dal suo territorio, da quegli antichi «paschi» (pascoli) del contado senese cui si rapportava dall’anno di grazia 1472 il Monte, nato per venire incontro alle classi disagiate e usurate. Il resto lo hanno fatto operazioni ardite che hanno portato la banca nel mare aperto della globalizzazione, spesso prive di copertura finanziaria, fino al collasso. A cominciare dall’affare Antonveneta per nove miliardi di euro, la madre di tutte le acquisizioni. Alla fine pare che la banca sia costata ai contribuenti 30 miliardi, euro più euro meno. Naturalmente chi ha contribuito a sperperare tutto quel denaro pubblico, compresa la miriade di beneficiati dell’entourage politico e istituzionale, non ha pagato. Paradossalmente è rimasto travolto quel management onesto e capace, come Alessandro Profumo e Domenico Viola, che in cambio hanno ricevuto processi e inchieste per colpe che non erano loro.

Ho avuto l’occasione di intervistare quest’ultimo nella meravigliosa sede di Siena, restaurata dall’architetto Pierluigi Spadolini (fratello del leader repubblicano e presidente del Consiglio Giovanni) proprio nei giorni in cui il vascello oscillava nella tempesta e ho avuto modo di constatarne la capacità e la buona fede, quella forza tranquilla che avrebbe dovuto far uscire il Monte dai marosi.

Ma la forza di gravità del passato trascinava il Monte nel baratro. Anni complicati e drammatici, con la tragedia dell’addetto stampa David Rossi, precipitato da una finestra del quarto piano della banca. Dopo tanti anni non siamo ancora arrivati alla resa dei conti, sappiamo solo che a pagare saranno i contribuenti e i dipendenti dell’istituto, come sempre.

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