Sul salario minimo la strada contrattuale

ITALIA. L’uomo è diventato «moderno» quando la sua coscienza - per secoli orientata al passato - si è iniziata a rivolgere verso il futuro, perfino nel modo di concepire la retribuzione del proprio lavoro. Parola del filosofo cattolico-liberale statunitense Michael Novak (1933-2017) che individuava nello studioso domenicano Caietanus (1469-1534) il primo teologo capace di lasciarsi alle spalle le concezioni di un mondo economico statico, per approdare a quelle di un mondo in cambiamento.

«A suo giudizio la “giusta paga” non poteva essere misurata soltanto in base a ciò che era ‘adeguato alla propria condizione’ (immaginata come immutabile), ma in base a ciò che era adeguato al proprio contributo (contributo che via via variava con il variare del mondo)». Se era vero nel XV secolo, figuriamoci oggi.

Il mondo adesso cambia a ritmi che talvolta ci sembrano perfino insostenibili, dunque la misura di cosa si intenda per «giusta paga» meriterebbe una riflessione quasi costante. Il momento peraltro sembrerebbe ottimale. In Italia non ci sono mai stati così tanti occupati, per la precisione 23 milioni e 656mila, oltre mezzo milione in più di un anno fa; il tasso di occupazione – ovvero la quota di occupati sul totale dei residenti in età da lavoro – a settembre ha raggiunto il 61,7%, più 1,4% da un anno fa; il tasso di disoccupazione, a settembre pari al 7,4%, è ai minimi da quindici anni.

E nonostante la stagnazione economica in cui siamo scivolati negli ultimi due trimestri, sale il numero di assunzioni previste dalle aziende nei prossimi mesi: secondo i dati Excelsior-Unioncamere-Anpal, saranno 430mila a novembre e 1,3 milioni tra novembre e gennaio, con un incremento rispettivamente del 12,6% e dell’8,4% rispetto all’anno passato. Così se gli economisti un tempo si interrogavano sulla «jobless recovery», come viene chiamata in inglese quella ripresa economica che non crea posti di lavoro, adesso sono chiamati a risolvere l’enigma della «jobful recession», cioè di una economia che si indebolisce mentre l’occupazione continua a crescere. Alcune ipotesi circolano già ma al legislatore, così come alle parti sociali, spetta un compito meno teorico e decisamente più urgente: non sprecare una fase relativamente positiva per l’occupazione, quindi priva di eccessive tensioni sociali da gestire o di emergenze da tamponare, e cogliere l’attimo per tentare di aggredire e risolvere alcuni problemi strutturali del mercato del lavoro nazionale.

Dagli stipendi più bassi della media europea alle competenze professionali da adeguare e aggiornare, passando per il gap salariale e occupazionale uomo-donna o il persistente malessere demografico. In questo senso, è davvero benvenuto il dibattito che i partiti politici e le parti sociali stanno animando attorno al cosiddetto «lavoro povero» e a soluzioni di vario genere etichettabili in senso ampio come «salario minimo» o «dignitoso». Ieri la maggioranza di destra-centro, in Commissione Lavoro alla Camera dei deputati, ha presentato un emendamento alla proposta di legge presentata nelle settimane passate dalle opposizioni. L’emendamento esprime una «delega» al Governo affinché, nell’arco di sei mesi dall’approvazione del testo, approvi uno o più decreti legislativi «al fine di garantire l’attuazione del diritto di ogni lavoratore e lavoratrice a una retribuzione proporzionata e sufficiente, come sancito dall’articolo 36 della Costituzione».

Una strada che, secondo la maggioranza, va percorsa «rafforzando la contrattazione collettiva e stabilendo i criteri che riconoscano l’applicazione dei trattamenti economici complessivi minimi dei contratti collettivi nazionali maggiormente applicati». L’opposizione però è salita sulle barricate, criticando il metodo della delega e non solo. Il Pd per esempio non transige sull’eliminazione della soglia minima di 9 euro lordi l’ora, il Movimento 5 Stelle evoca addirittura il ritorno delle «gabbie salariali». Eppure sarebbe bene dismettere ogni furore ideologico, fidarsi della pratica negoziale che – se rafforzata e incentivata, come insiste la Cisl – può portare a una stagione di nuovo protagonismo per lavoratori e imprese, legando in definitiva gli incrementi salariali all’aumento e alla redistribuzione della produttività che è il motore ultimo della creazione di ricchezza in ogni economia.

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