Tensioni
nella Lega
Resa dei conti
dopo il voto

Il voto sul decreto green pass bis non ha riservato sorprese, salvo per un aspetto: al momento del sì mancava la metà dei leghisti, diversi anche senza giustificazione. Immediate polemiche degli alleati: «Ci risiamo, la Lega si sottrae agli impegni di maggioranza». «Serve coerenza, ci dicano da che parte stanno», detta immediatamente Enrico Letta. Ma Matteo Salvini non fa una piega, anzi giustifica le assenze: «I parlamentari sono liberi di decidere come credono», incurante del fatto che così non è né potrebbe essere quando un gruppo parlamentare che sorregge il governo e ne fa parte con propri ministri è chiamato ad approvare in Parlamento i provvedimenti del medesimo governo.

Tanto è vero che, come il comportamento difforme di un singolo deputato fa scattare provvedimenti disciplinari, quello di un intero gruppo o di una larga parte di esso in genere provoca una crisi o almeno una verifica di governo. Dunque Salvini dimostra con le sue parole che non ha alcuna intenzione di modificare la linea, critica nei confronti dei provvedimenti anti-Covid e tiepida sulla campagna vaccinale: una posizione che tenta di strappare alla concorrente Giorgia Meloni la rappresentanza degli italiani no-mask e no-vax, nonostante che buona parte della Lega abbia mostrato apertamente di preferire la strada imboccata da Draghi, Speranza e Figliuolo. Confermando che «i parlamentari sono liberi» Salvini reagisce a quanti lo descrivono come un leader all’angolo, messo in minoranza dai pezzi da novanta del movimento, dal ministro Giancarlo Giorgetti ai governatori del Nord Zaia, Fontana e Fedriga, tutti detentori del consenso elettorale dei ceti produttivi settentrionali. Una pressione che il leader non ha gradito, tant’è che quando Fedriga ha dichiarato «nella Lega non c’è posto per i no-vax», Salvini lo ha subito rimbrottato: «Non siamo una caserma». Quindi, ne deduciamo, c’è posto per i no vax come per i parlamentari che non vogliono legare il proprio sì all’estensione del green pass.

Fin quando Salvini potrà resistere? Sicuramente fino al voto delle amministrative di ottobre. Poi si conteranno i voti, soprattutto quelli di Milano dove il candidato sindaco del centrodestra è attribuito direttamente a Matteo (come a Roma la Meloni si intesta il nome di Michetti). Se, come sperano il Pd e il M5S, i candidati di centrosinistra prevarranno al ballottaggio - per Beppe Sala si parla addirittura di una vittoria al primo turno - è fatale che a Salvini verrà chiesto un chiarimento su tutta la linea del partito, sia interna che internazionale. La propensione per i sovranisti e l’estrema destra europea non piace infatti a quanti, a cominciare da Giorgetti, puntano ad agganciare il carro dei moderati/conservatori del Ppe, il cui appoggio considerano indispensabile per poter sperare di conquistare un domani Palazzo Chigi. È lo stesso ragionamento dei berlusconiani che tengono ben strette le chiavi per l’ingresso dei leghisti nel salotto buono del potere europeo: quando Salvini vagheggia alleanze tra popolari e destre estreme, Tajani non esita un istante a bocciare la proposta: «Impossibile». Tanto più adesso che gli azzurri sono irritatissimi con Salvini, che continua a far scouting nelle loro fila: ieri due esponenti di primo piano di Forza Italia della Lombardia sono passati sotto la bandiera del Carroccio. Salvini lo fa per reagire al momento di difficoltà e mostrarsi forte con amici e avversari, ma il dito nell’occhio di Berlusconi non gli porta certo bene, e anzi allontana nel tempo l’idea della federazione tra i due partiti in funzione anti-Meloni.

Conclusione. Le tensioni all’interno della Lega e tra la Lega e i suoi alleati di coalizione rischiano di essere il cuore dello scontro politico nella prossima legislatura qualora, come tutti i sondaggi ancora ci dicono, le elezioni venissero vinte dal centrodestra.

© RIPRODUZIONE RISERVATA