Tifo, non solo violenza: l’emergenza è il crimine

Sport. Di massima severità, di giri di vite, di parole indignate, di «ora basta», di tutto il campionario medio di politici, ministri, prefetti, presidenti di Leghe e Federazioni, di comunicati delle società che condannano ma non troppo, di tutta questa roba traboccano gli archivi di giornali, siti, agenzie.

Parole che venivano dette negli anni ’80, quando le tifoserie se le suonavano di santa ragione dentro gli stadi, e la celere ci dava di manganello. Quando il settore ospiti era ovunque e un cazzotto te lo potevi prendere anche te, che eri lì vicino, anche se lontano anni luce da quelle logiche para-tribali. Erano i tempi in cui il posto assegnato non esisteva, in cui le capienze erano opinioni e la calca la regola. I rischi, oggettivi. Erano i tempi del «mito» degli hooligans, tempi che forse finirono nella tragedia dell’Heysel. Quei morti, quella notte, costrinsero il mondo ad aprire gli occhi sul tifo violento, sull’odio per il proprio simile, diverso anche se solo nei colori di una maglietta.

Lì si alzò un primo argine, fatto soprattutto di militarizzazione degli stadi. Poi i settori ospiti, le trasferte organizzate e dunque più controllate, la tanto odiata «tessera del tifoso», le capienze che sono tornate oggettive, i posti assegnati. Un ordine crescente, e anche - va detto, una progressiva «maturazione» delle teste - ha fatto sì che il tifo mediamente si allontanasse dalla violenza, e dunque ne diradasse le manifestazioni estreme. Con tutte le eccezioni, ovviamente, dovute al fatto che il tifo organizzato si è fatto stile, ideologia, «ultras nella vita». Slogan, ma non solo, che alzano la temperatura dell’esistenza, che la avvicinano e se serve la portano oltre il confine del lecito, perché lo sconfinamento è sempre giustificato dall’onore della bandiera, la propria di tifosi e di territorio sempre - o quasi - davanti a quella della squadra.

L’ideologia, nel tifo come in politica o nelle religioni, giustifica sempre molto, quasi sempre «troppo», l’eccesso, il passo nell’illecito. La tessera del tifoso non era da buttare, ma è stato un metadone più che una cura. Un po’ come le limitazioni alle trasferte tornate in auge in queste ore. Non si risolve il problema lasciandolo a casa e insistendo a dividere i buoni dai cattivi, rendendoli ancora più incattiviti dopo aver sperimentato, negli ultimi anni, un’apertura di credito verso le curve: si è tornati in trasferta, quasi sempre senza limitazioni. L’esito è stato positivo: prima di domenica, e di quella macelleria messicana rischiata lungo la A1, non si ricordano fatti eclatanti. Si ricordano gli elicotteri, certo, perché il controllo non può venire meno mai: star meglio non significa essere guariti.

Ma in questi anni sono state altre, le cronache. I capi curva arrestati perché implicati in traffici criminali li abbiamo ben presenti. Quelli morti ammazzati, pure. Certi dirigenti non sono finiti sotto scorta per il gusto dello status symbol. Il passo avanti è stato quello del crimine, dell’infiltrazione criminale organizzata, dentro certe curve. Il bagarinaggio spinto, il merchandising abusivo, il traffico di droga, la logica delle bande, le società sotto costante ricatto, il razzismo - talvolta promosso a nazismo - perenne compagno di viaggio: questo, per fortuna non ovunque e non sempre, è oggi anche il tifo nelle curve. E il difficile è capire da che parte provare a risolverlo, al netto degli «ora basta» e dei «giri di vite» di rito che si consumano, vuoti a perdere, pure in questi giorni. Il primo passo necessario è sempre lo stesso: le società traccino un solco incolmabile con quelle parti del loro tifo che considerano la Legge carta straccia. I calciatori rifiutino chi sporca la maglia. E tutti coltivino e dialoghino con la parte sana del tifo organizzato. Quella che col tempo ha capito che si può amare una maglia e disprezzarne un’altra, senza soddisfare il bisogno di bloccare la A1 per mezzo pomeriggio.

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