Tra decreti
e fondi governo
allo stallo

Due fatti sono accaduti ieri, tra le molte chiacchiere elettorali che rendono convulsa questa ultima settimana prima del voto europeo. Il primo, il più importante, è il pranzo di lavoro di un’ora e mezza al Quirinale tra Mattarella e Conte. Il secondo è il rinvio a dopo il voto di domenica dei decreti Sicurezza e Famiglia in bilico ormai da settimane. Probabilmente l’uno ha prodotto (in gran parte) l’altro. Ma andiamo con ordine. Nell’ultima, tempestosa riunione del Consiglio dei ministri dedicata appunto ai due decreti, il premier Conte, per rafforzare le critiche sue e di Di Maio al testo propugnato da Salvini, ha detto e reso pubblico che «le criticità del provvedimento derivano anche da rilievi espressi dagli uffici del Quirinale».

L’affermazione ha stimolato una risposta piuttosto brusca del ministro dell’Interno. Ma, a parte questo, forse Conte in quel momento non si è reso conto che stava facendo una gaffe istituzionale molto grave: tirava in ballo pubblicamente in una contesa politica interna al governo, il giudizio del Capo dello Stato. Non si fa, non si è mai fatto, non si deve fare: il presidente della Repubblica non può diventare uno dei calciatori per la ragione che a lui tocca il ruolo di arbitro della partita.

Immediata è stata la convocazione di Conte al Quirinale: doveva essere martedì (lo si è saputo da un errore dell’Ansa), poi è scivolata a ieri. Mattarella ha preteso e ovviamente ottenuto da Conte una precipitosa marcia indietro: il Capo dello Stato non ha espresso pareri preventivi su un atto del governo, non intende farlo e non lo potrebbe fare. Non solo: nell’ora e mezza di colloquio Mattarella ha comunque messo in guardia il presidente del Consiglio dai rilievi di costituzionalità che potrebbero essere portati al testo prodotto dal ministero dell’Interno. Non è escluso che abbia anche fatto notare che la Costituzione prevede che le leggi siano dotate di copertura finanziaria e che il decreto grillino per gli aiuti alla natalità non sembra averne: senza soldi sarebbe un atto puramente dimostrativo.

Risultato di tutto questo: il Consiglio dei ministri che avrebbe dovuto varare entrambi i provvedimenti cari alla Lega (Sicurezza) e al M5S (Famiglia) è saltato a dopo il voto di domenica. Certo l’intervento di Mattarella è stato determinante ma non c’è dubbio che su quei due testi i partiti (ex?) alleati litigano ancora ruvidamente: l’accordo non c’è e dunque meglio rinviare. Il danno maggiore lo subisce Salvini che avrebbe potuto sventolare il giro di vite sull’immigrazione clandestina nelle ultime ore prima dell’apertura delle urne. Quanto alla Famiglia, la mancanza di soldi di cui si è detto rende il decreto di per sé poco significativo.

La conclusione di tutte questa telenovela è che il governo si conferma essere in una situazione di stallo. E non lo diciamo noi che guardiamo dall’esterno quello che si fa a Palazzo Chigi. Lo ammette chi in quel palazzo si trova sul ponte di comando: è il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il potente leghista Giorgetti, che parla di «immobilismo» e sbotta: «Così non si può andare avanti». Il braccio destro di Salvini qualche giorno fa ha mandato un avviso di pre-sfratto a Conte («Non garantisce più la sua equidistanza») e ora lancia questo penultimatum al quale Di Maio ha risposto con lo stesso tono («I leghisti pensano solo alle poltrone e hanno nostalgia di Berlusconi»).

Tutto ciò ci fa capire che le parole insistentemente ripetute dai due vicepremier sul fatto che dopo il voto non succederà alcunché e tutto rimarrà come è adesso sono archiviabili come una ripetitiva dissimulazione, tanto per usare le parole del Cardinal Mazarino, uno che il potere lo sapeva usare sul serio.

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