Tra governo e identità: i due registri di Meloni

Politica. Un po’ premier e un po’ capopartito: così lo stile, dopo oltre 100 giorni a Palazzo Chigi, di Giorgia Meloni, mentre non tutto il suo mondo si allinea agli oneri della responsabilità di governo. Il doppio binario rimanda allo scarto fra il livello istituzionale, che coinvolge e chiama tutto il Paese, e la rappresentanza della destra.

Sulle scelte strategiche che riguardano la collocazione dell’Italia nel mondo (relazioni con l’Europa, disciplina di bilancio pubblico, guerra in ucraina, gas) Meloni rassicura, perché si pone in netta continuità con il lascito di Draghi e con il nostro filone storico diplomatico: in pratica fa l’opposto di quel che sosteneva dall’opposizione. Mercati finanziari tranquilli, un certo plauso dalla stampa internazionale.

Il registro, anche comunicativo, cambia sul piano interno, dove sembra prevalere l’utilizzo di elementi simbolici per parlare al proprio elettorato, soprattutto alla base tradizionale della destra, attraverso la briglia sciolta ai colonnelli di FdI. Il caso Cospito divenuto il caso Donzelli-Delmastro, due fedelissimi della leader, non è il primo, non sarà l’ultimo, comunque sta confinato qui. Dentro una logica da opposizione in cerca di rivincita, in cui è lecito interrogarsi sullo spessore di una certa classe dirigente. La vicenda dell’anarchico, già complicata di suo e dai preoccupanti riflessi sulla piazza antagonista, è un pasticcio, in cui il merito s’è perso per strada: invece di ricomporlo nei limiti del possibile, lo s’è fatto deflagrare, deviandolo dalla sua origine. Lo stesso ministro della Giustizia, Nordio, deve misurare la distanza fra il giurista garantista qual è e l’essere Guardasigilli in un governo di destra-centro. Il nodo giustizia, croce di tutti i governi da Mani pulite in poi, è a domicilio fisso pure qui, dove peraltro i soci di maggioranza parlano ciascuno con una voce diversa.

L’impressione è che il governo nutra l’idea di sollecitare un’agenda identitaria, che non corrisponde pienamente alle priorità del Paese. Possiamo essere smentiti, ma non vediamo una sensibilità adeguata ai problemi quotidiani della gente comune, delle famiglie. Di tutti, non di segmenti corporativi di elettorato. La combinazione tra inflazione e rialzo dei tassi chiude un’era, c’è la questione del lavoro, del caro energia. Una sofferenza sociale che si coglie e che non sempre le statistiche intercettano, un disagio giovanile post Covid sottovalutato e che si estende. Il deficit di quel grande tema dimenticato che è la sanità per tutti. Qualcosa di più problematico e di più urgente rispetto agli intenti punitivi verso il Reddito di cittadinanza (confezionato male ma concettualmente valido).

A Roma, però, si parla d’altro: scenari già visti, oggi però piuttosto ruvidi, offerti da chi aveva promesso un’altra storia. Eppure non è un caso che proprio sulle accise la premier, pur godendo ancora di un alto apprezzamento, abbia avuto il primo inciampo nei consensi. Anche le rendite di posizione hanno un limite di tempo.

E ora c’è in ballo il regionalismo differenziato, la bandiera della vecchia Lega padana, che non va preso sottogamba per quel che riguarda gli assetti istituzionali, la tenuta stessa di un Paese già ferito da squilibri territoriali e disuguaglianze di reddito e di ricchezza. Anche qui si dovrà valutare se l’attuale classe dirigente è all’altezza della sfida. L’aspetto principale, su un dossier a rischio divisione e ancora in divenire, non riguarda solo la ricerca di un ampio consenso, ma la necessità di proporre un progetto che non sia percepito a danno di qualche realtà territoriale.

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