Trump, la battaglia legale tra show e comizio

ESTERI. Che lo show cominci! Anzi, è cominciato da due giorni, dal momento in cui Donald Trump ha lasciato la residenza di Mar-a-Lago, in Florida, in un corteo di dieci Suv neri degno di un film di Hollywood.

Ed è proseguito ieri, con l’arrivo al tribunale di Manhattan, la contestazione delle accuse, la procedura dell’arresto e infine il rilascio. Centinaia di persone sulla Quinta Strada a protestare o esultare, i fotografi a caccia di un’immagine e tutto ciò che accompagna il caso straordinario del primo presidente Usa costretto a difendersi da una serie di accuse, non legate alla politica, che possono portarlo in carcere. Le imputazioni, fino a ieri tenute segrete dal procuratore Alvin Bragg, sono 34 e sono state appunto contestate ieri all’accusato. È interessante notare che sono tutte per felony (reati che prevedono pene comunque superiori a un anno di carcere, come omicidio, traffico di droga, rapina a mano armata) e non per misdimeanor (reati minori, comunque sotto l’anno di carcere), cosa che dimostra la voglia di colpire duro ma che costringe l’accusa a qualche acrobazia legale. Bragg non solo deve dimostrare che aver comprato il silenzio della pornodiva Stormy Daniels (e, a quanto sostengono le imputazioni, anche dell’ex coniglietta di Playboy Karen McDougal) è un felony, come un omicidio, ma che il reato non è caduto in prescrizione dopo il termine di due anni previsto dalla legge, perché il tempo legale si è fermato quando Trump ha lasciato New York (dove il reato sarebbe stato commesso) per la Florida.

Di queste sottigliezze, e di colpi bassi legali più o meno clamorosi, sentiremo parlare a profusione nei prossimi mesi. E ci saranno fior di esperti a spiegarne il significato e le conseguenze. Conviene tornare, qui, allo spettacolo con cui abbiamo cominciato. Trump non ha parlato all’arrivo in tribunale, anzi, si è mostrato piuttosto serio e compreso del momento. Sembrerebbe che nell’occasione il team degli avvocati abbia prevalso su quello dei comunicatori e dei propagandisti. Però non bisogna illudersi. L’illustre imputato ha ripetutamente chiesto che gli venissero fatte le foto segnaletiche, con l’obiettivo di usarle poi nella campagna elettorale. E il procuratore Bragg ha chiesto al tribunale di prendere misure per proteggere i giurati e i testimoni da eventuali rappresaglie dei sostenitori di Trump, che l’ex presidente sta mobilitando con la forza, la malizia e il cinismo del suo talento di comunicatore.

Questo è, appunto, solo l’inizio del lungo e clamoroso show che ci aspetta. La Strategia di Trump è chiara: vuole trasformare questa battaglia legale, e altre che forse lo attendono (anche in Georgia c’è un gran giurì all’opera, per i tentativi di Trump di ribaltare il voto favorevole a Biden nel 2020), in un grande palcoscenico della sua prossima campagna elettorale per la riconquista della Casa Bianca. In un comizio destinato a durare un anno almeno, rilanciato ogni giorno da decine di televisioni, giornali e siti internet, oltre che dagli attivisti del Partito repubblicano e del Partito democratico.

A rendere insidiosa questa strategia concorrono diversi elementi. Il primo è il grande sostegno di cui Trump gode presso l’elettorato repubblicano, che ancora lo gratifica di consensi molto superiori a quelli di qualunque rivale interno, reale o potenziale. Questo influisce anche sulle strategie del partito, che vede appese a Trump le speranze di scalzare i democratici dalla Casa Bianca. Lo stesso Ron De Santis, governatore della Florida, considerato l’alternativa più consistente, al momento dell’incriminazione si è dovuto schierare con Trump, per evidenti ragioni di scuderia. La seconda considerazione è che le disgrazie di Trump non portano fortuna al presidente Biden, ancorato a un indice di gradimento che staziona intorno a un non esaltante 40%. Gli strateghi del Partito democratico lo sanno e infatti Biden mostra ostentato disinteresse per il clamoroso caso giudiziario. Cosa che non impedisce ai repubblicani di additarlo come il mandante del mastino Bragg.

Il fattore decisivo, però, sarà il tempo, l’anno che deve portare gli Usa a votare per il Presidente. L’anziano Biden reggerà altri dodici mesi? Come evolverà la guerra in Ucraina? L’inflazione continuerà a calare e l’occupazione a crescere? «È l’economia, sciocco!». Alla fine, il motto della campagna elettorale 1992 di Bill Clinton sarà di nuovo decisivo. Anche Trump lo sa.

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