Un evento di popolo tra passato e futuro

Bergamo. Io c’ero. I bambini si ricorderanno di questa giornata storica, hanno detto le maestre che ieri mattina erano in piazza Vittorio Veneto con i loro allievi. Intirizziti ma felici, sventolavano bandierine e cantavano l’inno di Bergamo e Brescia Capitale della Cultura. Hanno avuto l’onore di aprire un anno speciale da protagonisti, troppo piccoli per partecipare al tour de force delle ore successive, quando la città è stata travolta dai festeggiamenti inaugurali.

In ventimila hanno sfidato il freddo pungente, volevano esserci e far festa, ritrovarsi, riappropriarsi degli spazi svuotati dal Covid per un tempo che è sembrato infinito. Famiglie intere, tanti giovani e non pochi cittadini dai capelli d’argento. Quel che si dice una partecipazione corale. Per dare il via all’anno della Cultura si è pensato a un evento popolare, di piazza, che mettesse insieme il passato e il futuro, Arlecchino e Donizetti, la musica operistica e i dj, i flashmob e le bande. L’operazione è riuscita e la città ha risposto. Ha accettato di buon grado una settimana di limitazioni del traffico e al fischio d’inizio si è diligentemente presentata ai nastri di partenza. Ha sfilato per le vie, ha cantato, ballato, ripreso i fuochi d’artificio con i telefonini e si è immedesimata nei Nuovi Mille portati in scena dall’istrionico Francesco Micheli, i bergamaschi che lavorano senza sentire la fatica e con la stessa costanza si dedicano al volontariato, dentro e fuori le Mura. Che danno il loro contributo nelle missioni, nei centri di ricerca e nelle arti. Che affollano il Donizetti per la prosa e si mettono in coda quando la Carrara riapre. La ricostruzione parte da qui e può contare su solide basi.

A Parma nel gennaio del 2020 ad aprire le danze erano in quindicimila, ma non ebbero tempo di far festa. Un mese dopo la pandemia ci chiudeva in casa. A Procida, lo scorso anno, alla cerimonia inaugurale tutti indossavano ancora la mascherina. Oggi Bergamo e Brescia si sono lasciate la tragedia del Covid alle spalle e guardano avanti con fiducia. Le cicatrici restano, simbolo di quella resilienza che ci ha fatti conoscere nel mondo. Quel che è accaduto non si può dimenticare ma la cultura – nella sua accezione più ampia, beninteso – può essere il nostro antidoto alla sofferenza. Cultura come cura, del corpo e dello spirito, come condivisione, inclusione, partecipazione. Come volano per lo sviluppo sociale ed economico di un territorio.

Perché Capitale della Cultura non è solo musei, mostre e spettacoli, ma molto di più. È attenzione ai fragili, turismo sostenibile, cura dell’ambiente, innovazione, creatività, sguardo verso il futuro. Il Paese ci osserva, è stato detto. Vero, a giudicare dalla copertura mediatica avuta in questi giorni, in Italia e all’estero.

Riflettori puntati su due città che sanno che il bilancio di questa avventura non si farà il prossimo dicembre ma molto più avanti nel tempo. Saranno quei bambini che abbiamo sentito cantare l’inno della Capitale - dal titolo emblematico «Crescere insieme» - a dirci se l’obiettivo è stato davvero centrato. Se la festa di ieri non è stata solo un fuoco di paglia. Se i soldi raccolti e investiti sono stati ben spesi, se effettivamente abbiamo imparato a lavorare insieme, a definire progetti sostenibili e duraturi, a valorizzare le tante potenzialità dei nostri territori e a svilupparne di nuove. In attesa di scoprirlo, che la festa continui.

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