Un mondo complesso merita più di un post

ITALIA. In un sistema democratico moderno, il ruolo dell’opinione pubblica è decisivo. Non è l’inquietante «volontà generale» di Rousseau e neppure il manzoniano «senso comune», ma qualcosa che ha comunque a che fare con la legittimazione del potere. Dunque, fondamentale.

Ma chi orienta questa impressione complessiva? Nel nostro Paese è sempre più preoccupante il declino dell’influenza dei giornali. Quando le cose si fanno complicate nel mondo, come in questo momento, si sente forte la necessità della stampa, perché le questioni complesse solo il populismo le risolve con uno slogan di incompetenti presuntuosi, che convincono tanti che tutto si risolva in 24 ore.

Purtroppo, i numeri misurano un declino continuo del settore, con un’editoria per di più meno pluralista. Vero è che alle copie cartacee vanno aggiunti gli abbonamenti online, che in molti casi doppiano ormai le vendite tradizionali, e quindi, dal punto di vista del prodotto industriale, il lavoro dei giornali è ancora posizionabile sul mercato, ma qui stiamo parlando di formazione dell’opinione pubblica che è già bombardata dai social e dalle fake news. Non è la stessa cosa allargare le dita su un vetro per leggere meglio e concentrarsi sulle pagine d’inchiostro.

Tutti hanno uno schermo luminoso sotto gli occhi

Sui treni dei pendolari un tempo una copia cartacea sottobraccio era il corredo ineludibile per aprire la giornata, ma oggi la percentuale di chi viaggia col giornale è a livelli inferiori alle dita di una mano, mentre quasi tutti hanno uno schermo luminoso sotto gli occhi. L’opinione si forma in modo elaborato. Capire il frastagliato mondo islamico, il retroscena delle debolezze europee, delle inconsistenze italiane, delle giravolte del presidente americano, o le vere intenzioni di quello israeliano, chi se non un giornale può farlo con la necessaria completezza?

Ci vogliono pagine e pagine, non post su X. Gli editoralisti sono espressione spesso delle specializzazioni universitarie e culturali più competenti, e i corrispondenti sono immersi da anni nella cultura di Paesi che solo abitandoli si riescono a capire. Gli inviati che vanno in Ucraina ci tornano varie volte prima di giudicare, e lo fanno parlando con la gente, non solo con i potenti. Le alternative sono frustranti. Pochi spezzoni dei talk show serali in Tv sono utilizzabili per farsi un’opinione. Gli stessi che scrivono sui giornali sono soverchiati da propaganda e voci alte, dentro una par condicio che mette insieme commentatori neutrali e sedicenti professori dell’improbabile. Cose che funzionano per la politichetta del quotidiano, molto diseducativa a basso costo, non per la geopolitica.

Il tempo dei giornali-guida dell’opinione sono lontani, è vero, ma l’editoria si è pur adeguata alla tecnologia. Un tempo, la notizia era conosciuta la mattina dopo e meritava edizioni speciali che nelle città venivano strillate. Poi è venuta la radio e ancor più la Tv, e il ruolo audiovisivo si è mangiato la notizia in pochi attimi. Diventati nanosecondi quando il web ha consentito di raggiungere ciascuno di noi nel taschino della giacca. La rivoluzione ha fatto le sue vittime e l’Intelligenza artificiale ne sta già facendo altre. Sono morti prima i giornali del pomeriggio e poi i grandi settimanali, sconfitti gli uni dalla notizia in tempo reale e gli altri dalla velocità della nostra epoca, che non può aspettare il sabato per spiegare un retroscena.

La concorrenza ha migliorato la qualità dell’offerta, concedendo qualcosa alla cultura pop un tempo riservata ai settimanali del gossip, ma un quotidiano è davvero un piccolo mondo. Costa poco più di un euro, ma chiede qualcosa di impagabile: attenzione e tempo. Un Paese democratico che tiene a restarlo (siamo ormai una minoranza nel mondo e se cadono gli Usa restiamo quasi soli) ha il dovere di capire cosa capita fuori dall’uscio. La guerra in Iran non è solo una sfortunata coincidenza che impedisce a un attaccante iraniano dell’Inter di raggiungere la sua squadra.

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