Un sistema al collasso genera instabilità

Al governo Draghi quella che il ministro Giorgetti chiama «un’uscita dignitosa» non è stata concessa. Lasciare l’aula senza avere il coraggio di dire no a viso aperto, con un voto chiaro, non aiuta le virtù civiche e ancor meno i bizantinismi dei 5 Stelle che si dichiarano presenti e poi non votano. Nel dibattito in Parlamento nessuno si è chiesto perché il sistema politico è al collasso e genera instabilità. Perché anche quando vince una coalizione definita di centrodestra o di centrosinistra o giallo-verde o giallo-rosa inevitabilmente dopo un anno o due si sfarina e produce governi su governi dai quali si ricava l’impressione che nulla sia programmabile, mentre l’unica cosa che conta è la lotta per il potere. Solo in questa legislatura il «Conte 1» ha avuto una durata di 445 giorni, il «Conte due» di 509 giorni, il governo Draghi di 523, sino all’altro ieri.

Una politica che non programma non ha futuro. Dal 2000 al 2017 l’economia italiana è cresciuta del 6,5% in 18 anni, contro il 26% della media dell’Eurozona. C’è voluto il Piano nazionale di ripresa e resilienza dell’Unione europea perché finalmente venissero fissati degli obiettivi programmabili e verificabili a fine opera. Il governo Draghi ha introdotto la cultura della trasparenza. Non ragionieristica da contabili, ma politica. Mi prendo l’impegno, mi vincolo e ne do conto. I partiti vivono un equivoco di fondo: se si hanno 2.700 miliardi di debiti, 150% del Pil, molti dei quali presso i fondi internazionali, non si può pensare di avere le mani libere. Il costo degli interessi dei titoli di Stato è salito perché a Roma per l’ennesima volta fanno cadere un governo. E questo non è colpa degli altri.

L’Ufficio parlamentare di bilancio ha calcolato che un punto percentuale in più dei rendimenti comporta in tre anni maggiori esborsi per dieci miliardi a carico dello Stato. Risorse che farebbero comodo per esempio per contribuire a ridurre il carico che pesa sulla busta paga dei lavoratori. Se si vuol essere padroni in casa propria, ai cittadini va detto che il debito è di tutti, e quando supera il 90% del Pil diventa un ostacolo alla crescita, come si legge in «Growth in a time of debt» di Kenneth Rogoff. Altrimenti si instaura la cultura dei soli diritti, si dimenticano i doveri e si induce l’elettore a pensare che il bilancio dello Stato è una mucca che produce latte a comando. Il cittadino sa bene che, se compra casa e ha il piacere di vivere nelle sue quattro mura, deve pagare il mutuo. Non può protestare per un impegno che ha sottoscritto. È l’abc del vivere civile e l’italiano lo conosce e lo applica al proprio bilancio familiare. Ma quando si passa allo Stato scatta la rimozione. In Italia il contratto sociale è astratto.

La responsabilità, l’impegno morale che si vivono nel volontariato, una volta trasferiti allo Stato spesso perdono vigore, non vengono vissuti come propri. E così approdiamo a Roma e alla crisi di governo. I partiti non spiegano che il bene del Paese non è la somma dei singoli interessi particolari. Vi è un lamento che si alza dai ceti impoveriti dalla globalizzazione e ora dall’inflazione. La politica deve ascoltare, ma anche dire quali sono i costi, le rinunce per curare il malessere. Se non lo fa diventa populismo. Ha il dovere di informare, di spiegare invece di cercare scorciatoie e favorire i privilegi delle proprie clientele. Non aspira alla coerenza di un progetto, ma ai soli voti. Un cinismo che corrode la democrazia e tiene lontano l’elettore dalla politica e dalle urne. La cacciata del governo di Mario Draghi segna il punto di caduta. Diventa di plastica evidenza il divario fra il sistema politico e il Paese, fra ceti produttivi e parassitismo, fra sviluppo e rendite di posizione. È il blocco che isola l’Italia nell’Unione europea.

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