Usa, il solo impero
ma la Russia si muove

Con uno di quei giochetti che alimentano l’imperante russofobia, Vladimir Putin è stato presentato, dopo l’incontro con la stampa internazionale a margine del Forum economico di San Pietroburgo, come colui che vuole ritirare la Russia dal New Start, il trattato sulla riduzione delle armi nucleari strategiche firmato da Barack Obama e dal presidente russo (allora Dmitrij Medvedev) nel 2010 e destinato a scadere nel febbraio 2021. Trattato definito New perché andava a sostituire gli accordi precedenti, ovvero Start 1, Start 2 e Sort. In realtà Putin ha detto esattamente l’opposto.

Abbiamo sollecitato il prolungamento del Trattato ma nessuno ci risponde. Sappiano però che noi abbiamo un armamento nucleare più che capace di garantire la sicurezza del Paese, quindi se il New Start non si rinnova pazienza, noi stiamo bene anche così.

Nel discorso di Putin c’era un riferimento piuttosto trasparente a quanto avvenuto nell’ottobre scorso, quando Donald Trump aveva deciso in modo unilaterale di ritirare gli Usa dal Trattato Inf, quello sulle armi nucleari a medio raggio, che era stato firmato nel 1987 da Ronald Reagan e Michail Gorbaciov e aveva posto fine alla lunga e pericolosa stagione degli euromissili. La Casa Bianca aveva accusato la Russia di violare le norme del Trattato, il Cremlino aveva negato, ma il risultato era stato quello. Oggi Putin, memore dell’esperienza, dice: continuate pure ad alzare la tensione, a noi non fate paura. Sarà un caso ma poche ore dopo una nave da guerra russa e una americana si sono «confrontate» nel Mar della Cina, con i relativi allarmi.

È il risultato inevitabile di quanto è avvenuto negli ultimi anni negli Stati Uniti. Il Donald Trump che ipotizzava la distensione con la Russia è stato ingabbiato dal Russiagate e riportato all’ortodossia politica che regna a Washington dal crollo del Muro di Berlino. Essa prevede un assedio sempre più stringente alla Russia (e il deciso condizionamento della Ue) per impedire a qualunque costo che si produca una saldatura economica e politica tra l’Europa delle manifatture e la Russia delle risorse energetiche. Proprio a questo tra l’altro servono i Paesi dell’ex spazio sovietico (i Baltici, la Polonia, la Romania) che sono entrati nella Ue con il mega-allargamento del 2004.

Il tutto dentro la strategia, questa sì trumpiana, di «America first!», l’America prima di tutto, in base alla quale gli Usa sono passati all’offensiva su ogni fronte: contro l’Europa, contro la Cina, in Medio Oriente, nell’America Latina, in Asia e, come già detto, contro la Russia. Per parte sua la Russia, a torto o a ragione, ha pensato che nessun crollo del Muro, nessun accordo, nessun trattato, avrebbe convinto gli Usa a non perseguire il loro obiettivo strategico di fondo, cominciato a suo tempo con la distruzione-ricostruzione dei Balcani, e ha deciso di mostrare i denti. Lo ha fatto in Ucraina e in Siria, lo fa ora quando si parla di armi nucleari.

Vista nel suo complesso è una follia ma gli imperi funzionano così. E gli Usa sono indubbiamente un impero, l’unico impero rimasto. Il problema è che il mondo è diventato assai più frastagliato e complicato di quanto fosse un tempo. Forse un impero non basta più a governarlo, e nemmeno a dominarlo. Proprio nelle scorse ore il presidente cinese Xi Jinping ha concluso la sua ottava visita ufficiale di Stato a Mosca in sei anni e l’ha fatta precedere dall’affermazione che «mai come oggi le visioni strategiche complessive di Russia e Cina corrispondono». Nello stesso tempo, la Huawei cinese, bandita dagli Usa come una congrega di spioni, ha firmato con la Russia un accordo per lo sviluppo della tecnologia 5G. Alla luce di quanto detto prima forse non sono buone notizie. O sì?

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