Voto, trionfo di Meloni. Pd a rischio scissione

POLITICA INTERNA. Il primo test elettorale per Giorgia Meloni e la sua maggioranza è stato pressoché un trionfo.

Il centrodestra ha vinto quasi ovunque, soprattutto ai ballottaggi: ai gioielli della corona è mancata solo Vicenza, conquistata da un piddino che tutto ha fatto tranne che presentarsi come tale. Il governo dunque si rafforza, può continuare la sua navigazione sapendo che la trazione meloniana non può essere messa in discussione: è lei e principalmente lei la portabandiera della destra di governo. Il problema vero ce l’ha la sinistra, il Pd in particolare. Per descrivere la sconfitta, a via del Nazareno non lesinano certo le parole forti: la più lieve è «tranvata», come si dice a Roma per chi abbia la disgrazia di essere investito, appunto, da un tram. Un tempo, anche quando il Pd andava maluccio alle politiche, si rifaceva largamente alle amministrative: i Comuni erano suoi non solo nelle regioni «rosse» del Centro Italia ma qua e là anche nelle roccaforti avversarie come il lombardo-veneto leghista e azzurro. È questo che ha mantenuto in piedi le segreterie di Nicola Zingaretti, per dire, o di Enrico Letta da ultimo: era il partito «dei sindaci» che resisteva alle botte essendo profondamente radicato sul territorio anche grazie a un oliato sistema di potere. Tutto finito, spazzato via.

Il partito è traumatizzato e si rivolge alla segretaria Elly Schlein con un misto di incredulità e rancore. «È la narrazione» che non funziona, borbottano i dirigenti. Lo dice anche Salvini: «Se tu parli di Lgbt, ius soli, utero in affitto, gli italiani si girano dall’altra parte e guardano a chi parla dei loro problemi veri», ha infierito il ministro dei Trasporti.

Ma non è molto lontano da ciò che pensano i «riformisti» del Pd, quelli che insomma stavano con Bonaccini alle primarie e che si ritrovano il partito trasfigurato che perdipiù ha una segretaria che non prende una sola posizione chiara né sui temi economico-sociali (reddito di cittadinanza, riforma del Fisco, Pnrr, Ponte sullo Stretto) né sulla politica estera (cosa pensa davvero il Pd sulle armi all’Ucraina?). Per non parlare dell’assenza della segretaria nelle zone alluvionate della Romagna, che poi è anche la Regione di cui è stata vicepresidente. Piuttosto la linea del Pd versione «Sardine» si è concentrata sui diritti civili e sulla Resistenza antifascista: secondo il neo sindaco di Ancona, la sua avversaria di sinistra per tutta la campagna elettorale ha parlato di «pericolo nero», e il risultato - dice lui - che i quartieri popolari del capoluogo delle Marche che votavano compattamente per i democratici, hanno traslocato verso il centrodestra.

La Schlein reagisce con fastidio alle critiche («Non potete starmi tutti addosso») e accusa i «venti di destra» che non bastano due mesi per fermare. Ma lei sa benissimo che presto la minoranza metterà sotto accusa il suo modo di gestire il partito in solitaria o al massimo in compagnia di un gruppetto di suoi fedelissimi considerati tutti di estrema sinistra, convinti che il Pd per rimettersi in carreggiata debba fare come i grillini dei primi anni. Strategia che evidentemente non funziona tanto che i grillini di questi tempi - anch’essi quasi scomparsi dalle urne - si prendono il lusso di snobbare tutte le profferte di alleanza nel «campo largo» che provengono dal Pd.

Il rischio vero è che prima o poi il Partito democratico che fu fondato da Walter Veltroni per mettere insieme le anime della sinistra italiana si spacchi in due tra massimalisti e riformisti. Questo sì che sarebbe un gran bel regalo per Giorgia Meloni.

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