Zaki libero, ma l’Egitto resta intoccabile

Dopo 22 mesi di prigionia, prima nel carcere di Mansura e poi in quello di Tora, decine di udienze estenuanti e la spada di Damocle di una lunga e ingiustificata condanna, a Patrick Zaki, lo studente egiziano residente in Italia e arrestato all’aeroporto del Cairo il 7 febbraio 2020, potrà tornare in libertà. Esultano, giustamente, i parenti, gli amici e gli attivisti che lo hanno sempre sostenuto. È un passo importante ma, bisogna dirlo chiaramente, non è una vittoria.Intanto la libertà di Patrick è provvisoria, come dice appunto la sentenza, e sul suo capo pende ancora lo spettro di una condanna a cinque anni per l’accusa di aver diffuso notizie false.

Ma soprattutto, questa svolta arriva sotto forma di una gentile concessione delle autorità egiziane, e non come il riconoscimento che il processo è stato fin qui assurdo e crudelmente persecutorio, tanto da trasformarlo in una palese strategia di intimidazione nei confronti di tutti coloro, siano oppositori, attivisti o semplici cittadini, che nutrono una qualche forma di critica nei confronti del regime del presidente Abdel Fattah al-Sisi. Men che meno si tratta di una marcia indietro rispetto alle leggi liberticide che hanno portato nelle prigioni egiziane più di 65 mila prigionieri politici.

Il «caso Zaki», in questi due anni, è stato vissuto in Italia come un proseguimento del «caso Regeni», il giovane ricercatore che, sempre al Cairo, fu rapito il 25 gennaio del 2016, torturato e lasciato morto in strada dove fu ritrovato il 3 febbraio. Ed è stata una giusta considerazione, che dobbiamo tenere presente anche ora. Perché non si ottiene la verità? Perché l’Egitto mente e ostinatamente nega quanto è ormai evidente a tutti, e cioè che Regeni fu trucidato da una squadra dei servizi segreti del Paese, in una delle tante missioni punitive che rientrano tra i loro compiti? Per la stessa ragione per cui un attivista come Zaki è stato così a lungo perseguitato: al-Sisi sa di potersi permettere certe azioni senza dover pagare dazio.

L’Egitto è un Paese strategico per tutto il Mediterraneo e il Nord Africa. Quindi lo è anche per il nostro Paese. Per esempio è decisivo in Libia, dove appoggia il generale Haftar mentre l’Italia sostiene il governo di Tripoli. Accoglie ogni anno esportazioni italiane «civili» per un valore di tre miliardi di euro e militari (fregate, elicotteri…) per altri nove. Ma soprattutto è blandito da tutte le potenze, grandi e piccole. In questi giorni sono in corso nel Mediterraneo le esercitazioni congiunte della marina egiziana e della Flotta del Mar Nero della Russia. Riceve dagli Usa 1,3 miliardi di aiuti militari l’anno (appena limati di 130 milioni quest’anno dal Congresso), ha la collaborazione di Israele nella lotta all’islamismo nel Sinai, ha ottime relazioni con la Russia (che nel Paese sta costruendo una centrale nucleare), fa affari con la Francia (subito dopo la morte di Regeni, quando l’Italia ritirò l’ambasciatore, il presidente francese Hollande si precipitò al Cairo a fornire prestiti e firmare accordi), e potremmo continuare a lungo.

In fine al- Sisi: ora è presidente ma è soprattutto l’ex capo dei servizi di sicurezza e l’ex capo delle forze armate, in uno Stato dove i militari controllano una parte consistente dell’industria, dei servizi e in generale dell’economia.

In un quadro come questo, qualche buon risultato come la liberazione di Patrick Zaki o l’attenzione costante per la vicenda di Giulio Regeni potrà essere ottenuto grazie alla tenacia di tanti attivisti e semplici cittadini. Alla politica, invece, sarà meglio non chiedere ciò che non può dare.

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