Il Papa in Mongolia, lo accoglierà anche un bergamasco: padre Ernesto Viscardi

L’INTERVISTA. «Noi cattolici in mongolia un germoglio tra le steppe». Padre Ernesto Viscardi, di Villa d’Almè: una Chiesa di 1.500 fedeli in una terra 5 volte più grande dell’Italia. «Papa Francesco fa visita ad una comunità tra le più piccole al mondo. La sua presenza ci dà gioia e coraggio».

È la terra sconfinata fondata dal condottiero mongolo Gengis Khan, tra Cina e Russia, che conta poco più di tre milioni e mezzo di abitanti in un territorio che è cinque volte più grande dell’Italia. Una terra di allevatori di cavalli che negli ultimi anni fa i conti con uno sviluppo economico senza precedenti, in cui la tradizione religiosa, dopo gli anni del comunismo, ha lasciato spazio al buddismo e allo sciamanesimo e in cui i cristiani rappresentano una piccolissima comunità di 1.500 fedeli.

Papa Francesco è pronto a rispondere all’invito del presidente Ukhnaagiin Khurelsukhe e

atterrerà nella capitale mongola di Ulaanbaatar il primo settembre per fermarsi fino al 4 settembre in un viaggio nel cuore dell’Asia che il Successore di Pietro ha voluto fortemente per incontrare una Chiesa «piccola nei numeri, ma vivace nella fede e grande nella carità». Ad accoglierlo ci sarà anche padre Ernesto Viscardi, 72 anni, missionario della Consolata, originario di Villa d’Almè, dal 2004 missionario a Ulaanbaatar. «La comunità cristiana in Mongolia è un germoglio nelle steppe che vuole crescere» racconta al telefono mentre si appresta ad accogliere la stampa internazionale e a occuparsi delle relazioni con i media grazie alla sua conoscenza della lingua mongola e le abilità nella traduzione.

Il Santo Padre si prepara a vivere l’incontro con la comunità cristiana tra le più piccole, per numero, al mondo: che cosa significa per i cattolici in Mongolia questa visita?

«La visita del Papa per noi è una grande gioia, un segno di grazia e di altruismo del Pontefice: con la sua presenza è di grande incoraggiamento. Porta la Chiesa ai confini del mondo e nello stesso tempo per alcuni giorni tutto il mondo avrà gli occhi puntati su di noi, una piccola comunità cattolica un po’ sconosciuta».

Lei è missionario in Asia dal 2004 e ha visto crescere la comunità cristiana in Mongolia: come è nata questa presenza?

«Il primo insediamento risale a 30 anni fa, grazie all’opera di monsignor Venceslao Padilla, vescovo filippino scomparso nel 2018 a cui è subentrato monsignor Giorgio Marengo, cuneese, oggi il più giovane cardinale della Chiesa e anch’egli missionario della Consolata. Monsignor Marengo è arrivato qui nel 2003 e io l’anno successivo e abbiamo fondato insieme la prima missione cattolica a Arvajheer, una cittadina di 40 mila abitanti, nella regione centro meridionale della Mongolia dopo aver viaggiato a lungo tra il 2008 e 2009 per conoscere e capire la cultura del Paese. Oggi la comunità cristiana conta circa 1.500 battezzati distribuiti su nove parrocchie in un territorio molto vasto, con circa 20-25 sacerdoti e una settantina di religiosi. Il cuore della nostra Chiesa sono i laici, animatori di comunità, che hanno studiato in Italia e nelle Filippine».

Quale è il contesto religioso e sociale in cui è nata la comunità cristiana in Mongolia?

«Fino agli anni Venti la Mongolia era sotto il dominio della Cina, poi è iniziato un processo di indipendenza, sostenuto dai russi, che rimarranno numerosi fino alla caduta dell’Urss. Negli anni Novanta il Paese si stacca dall’orbita sovietica e rinasce anche una ricerca religiosa. I primi cattolici qui furono degli emigranti, per lo più componenti del corpo diplomatico, ma poi piano piano la presenza è cresciuta perché ha incrociato la ricerca religiosa della generazione di 30-40enni dopo gli anni del socialismo».

Che cosa significa fare il missionario in Mongolia?

«Innanzitutto ci vuole il fisico per resistere alla temperature anche gelide della steppa e ai lunghi spostamenti che ti mettono alla prova. Ci vuole grande capacità di ascolto: ho passato i primi anni a incontrare le persone, conoscere la cultura, la religione, imparare il mongolo. E grande fede ripagata dalla gioia di vedere crescere giorno dopo giorno questa comunità. Sono finito qui un po’ per caso: ero rientrato in Italia dopo l’esperienza di missione in Congo. Un religioso destinato a questo Paese si ammalò e io mi proposi per sostituirlo. Mi incuriosiva avvicinarmi a una Chiesa nuova come era quella asiatica nei primi anni del Duemila».

Come vi state preparando alla visita di Papa Francesco?

«Per il Santo Padre (sorride padre Viscardi ndr) non si tratterà del consueto bagno di folla, ma forse potrà conoscerci uno a uno. Il Pontefice incontrerà le istituzioni in primis, poi la comunità cattolica non solo nella capitale, e i leader delle tradizioni religiose più rappresentate nello Stato asiatico. Sarà anche l’occasione per scoprire le tante attività di vicinanza e sostegno a chi ha bisogno e ai giovani che qui negli anni abbiamo fatto crescere».

Che cosa trasmette, secondo lei, al mondo la presenza di una comunità cattolica come quella nata in Mongolia?

«Spero coraggio e fede: siamo pochi ma siamo Chiesa a tutti gli effetti; apertura e ascolto costante nel dialogo interreligioso e culturale; testimonianza con la vicinanza a chi ha bisogno».

Il mito di Gengis Khan, il deserto del Gobi, una popolazione di nomadi che vive nelle yurte: sono le immagini che vengono in mente quando in Italia si pensa alla Mongolia: come è il Paese oggi?

«La Mongolia ha trovato sicuramente elementi di identità in Gengis Khan, fondatore e padre

della patria, nella lingua, nelle tradizione e nel buddismo della scuola Mahayana tibetana, la religione più praticata del Paese. In effetti è un terra sconfinata, fatta di steppe, per lo più spopolata, difficile da controllare in cui la cultura nomade dei pastori di pecore, cammelli, mucche, yak e soprattutto cavalli si trova a fare i conti invece con uno sviluppo economico veloce e l’iniezione di capitali dall’estero, per esempio dagli Stati Uniti. Si sta spingendo molto l’estrazione di rame e ferro e altri minerali preziosi presenti qui in grande quantità nel deserto del Gobi. È un Paese stretto tra la Russia a Nord e la Cina a Sud che ha una politica migratoria molto chiusa per non correre il rischio in poco tempo di essere invasa dai cinesi».

Quale è il rapporto tra Chiesa cattolica e istituzioni, anche religiose?

«L’invito al Santo Padre è arrivato nei mesi scorsi dal presidente della Mongolia per cui un grande gesto di interesse e di apertura verso la Chiesa dal punto di vista istituzionale. È stata una sorpresa poi scoprire che Papa Francesco aveva risposto a questo invito e sarà qui tra pochissimo ormai. La comunità cattolica è esigua, 1.500 fedeli, su una popolazione per lo più laica, di tre milioni e mezzo di abitanti. Il 53% della popolazione è buddista, è ancora forte la cultura sciamanica ed esiste una comunità religiosa musulmana di kazaki. Esistono poi altre minoranze con cui c’è un dialogo rispettoso e costante».

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