I professori senza casa e il mercato da regolare

ITALIA. Casa, dolce casa. Con un retrogusto amaro. Le statistiche abitative del nostro Paese raccontano una verità solo in parte rassicurante: oltre il 70 per cento degli italiani vive in una casa di proprietà.

Ma basta grattare sotto la superficie per scoprire l’altra faccia, quella del 30 per cento, quasi un italiano su tre, che una casa non ce l’ha e l’affitta quasi sempre a peso d’oro. Ed è lì che si concentra il ceto medio urbano sempre più in crisi, i working poors che per l’alloggio si mangiano fino a due terzi del salario, le giovani coppie costrette a convivere in spazi angusti che non sono fatti per la vita di una famiglia. Perché una culla, senza un tetto, è solo un mobile in esposizione.

Gli affitti a lungo termine sono diventati quasi un miraggio - come spieghiamo a pagina 18 col caso dei circa 350 professori che rinunciano a una cattedra a Bergamo per via dell’impossibilità di trovare un appartamento a portata di stipendio - per via del proliferare dei B&B, più convenienti e più sicuri. Gravissima la condizione degli studenti fuori sede: sugli 824 mila iscritti alle università italiane, soltanto il 4,9 per cento trova posto in alloggi pubblici o convenzionati. Il resto è costretto ad affittare una camera con bagno in comune a 800 euro al mese. Una chiara violazione del diritto allo studio. Vi è poi un paradosso sociale. Nelle città dove c’è lavoro – Milano, Roma, Bologna, Firenze – le case sono semplicemente inaccessibili. E nelle città dove le abitazioni costano meno, il lavoro manca. Una trappola perfetta.

Il fallimento delle politiche abitative

Una formula che fotografa il fallimento di decenni di politiche abitative. Il governo ha annunciato un piano casa. Giorgia Meloni e Matteo Salvini hanno messo sul piatto 600 milioni, bruscolini (secondo l’Ance servirebbero almeno 15 miliardi), ma parlano di social housing, di riorganizzare gli enti per le case popolari, di partenariati pubblico-privato con fondi europei e la Banca europea degli investimenti. Speriamo. Nell’attesa il cuore del problema resta lo squilibrio tra chi cerca un tetto e chi sull’immobiliare specula. Per carità, del tutto legalmente, ma è pur sempre speculazione. Negli ultimi decenni i governi hanno coccolato i proprietari, soprattutto i grandi proprietari: cedolare secca, superbonus, meno tasse. Agli inquilini e agli acquirenti, invece, poco o nulla. Servirebbero sconti fiscali, misure immediate, strumenti normativi che davvero siano in grado di calmierare il mercato.

E a ben vedere non va così a meraviglia nemmeno per i proprietari, che corrono rischi altissimi in caso di locatari morosi. In Italia sfrattare un inquilino che non paga è molto

Giustizia civile lenta, iter burocratici infiniti, prefetti che – in mancanza di case popolari per chi non può più permettersi un tetto, soprattutto se si tratta di famiglie con minori, anziani o disabili - si vedono costretti a bloccare (giustamente) lo sfratto

difficile. Giustizia civile lenta, iter burocratici infiniti, prefetti che – in mancanza di case popolari per chi non può più permettersi un tetto, soprattutto se si tratta di famiglie con minori, anziani o disabili - si vedono costretti a bloccare (giustamente) lo sfratto. E anche quando arriva la sentenza, occorre la forza pubblica, ma i rinvii sono continui: mancano gli agenti, o il prefetto sospende per motivi di ordine pubblico. Risultato: l’inquilino moroso resta anni senza pagare, mentre il proprietario continua a versare tasse e spese condominiali Senza un piano di edilizia popolare, i piccoli proprietari diventano ammortizzatori sociali involontari, messi a reggere un sistema che non funziona.

Il problema, in fondo, è che le città italiane stanno diventando grandi mercati finanziari immateriali. Agglomerati di milioni di posti letto che cambiano proprietario come fossero titoli di borsa. I veri padroni sono sempre di più i fondi di investimento, le società di gestione del risparmio, le banche che mettono gli alloggi a rendita. Tutti attori sociali che trattano gli appartamenti come obbligazioni: si tengono vuoti finché non conviene venderli. Intanto le piattaforme digitali trasformano i centri storici in alberghi diffusi. E gli abitanti, quelli veri, scompaiono, soprattutto dai centri storici, ormai colonizzati dai ceti abbienti, la «gentry», come viene chiamata questa élite abitativa, mutuando il termine dalla piccola nobiltà inglese dell’Ottocento. A tutti gli altri non resta che prendere la via delle periferie, dei grandi agglomerati privi di servizi essenziali.

Regolare gli affitti brevi

Per rimediare a questa speculazione mancano tante cose. Manca un piano di edilizia residenziale come quello di Fanfani del Dopoguerra. Manca una regolamentazione seria degli affitti brevi, con limiti chiari al numero di appartamenti trasformati in B&B. Mancano case popolari. Mancano politiche abitative. L’Italia che ha costruito case per milioni di famiglie nel Dopoguerra oggi si ritrova senza una strategia, consegnata ai fondi di investimento e agli speculatori. E la politica, come sempre, arriva dopo, quando le città sono già cambiate, quando l’emergenza non è più statistica ma vita quotidiana.

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