
L'Editoriale / Bergamo Città
Venerdì 04 Luglio 2025
Il governo di Trump, racconto e post verità
MONDO. Entrare nella testa di Trump è un esercizio un po’ arbitrario, considerando il carattere del personaggio: è però un tentativo per capire la natura dei nuovi poteri, nella stagione delle emozioni forti e del pensiero debole, che oggi orientano il sentimento dell’opinione pubblica.
Lasciando perdere per un attimo il conflitto di idee, cercando un altro punto di osservazione, perché i confini fra politica, spettacolo e racconto sono ormai incerti. Siamo nell’era della «politica del pubblico», dove diminuisce la partecipazione attiva e cresce quella passiva, del pubblico che assiste da spettatore del talk-show sul divano di casa. E quindi ci può soccorrere la psicologia delle folle, che nel ‘900 ha svolto un ruolo significativo nello spiegare il rapporto fra le masse e i leader plebiscitari. Già c’è un’ampia letteratura sulla biografia del tycoon, ma resta un sottostante, una grammatica dei tempi nostri da mettere a fuoco.
Trump, «autoritario incosciente»
Perché in fondo una personalità così corrosiva, l’espressione più autentica di un’America che ha perso l’anima, non si esaurisce ricorrendo soltanto agli strumenti ordinari della politica. L’ultima originale definizione in ordine di tempo che lo riguarda viene da «Le Monde», che definisce il capo della Casa Bianca un «geo-narciso», termine complicato che possiamo tradurre così: persona di una vanità regale smisurata, tale da abbattere i confini geografici, forse l’unica forma di globalizzazione che gli sta a cuore. Per Fareed Zakaria, uno dei più autorevoli esperti americani di politica estera, il presidente non è un leader autoritario consapevole, nel senso che non ha un piano per distruggere la democrazia. Un «autoritario incosciente», non ideologo, neppure neoconservatore, tantomeno realista: semplicemente trumpiano. Di certo ha una mentalità autoritaria, è volubile, non ha precisi riferimenti morali ed è un produttore di incertezze, a suo agio nel caos: fra manie di strafare, spinte oltre la linea rossa del limite, irrazionale esuberanza di chi crea il problema per poter poi dire di averlo risolto.
Il presidente e al post-verità
Allargando l’orizzonte al campo mediatico-psicologico, c’è però qualcosa di più. Lo ha descritto su «Avvenire» il gesuita Antonio Spadaro, già direttore della «Civiltà cattolica», scrivendo che la grande questione del nostro tempo non è solo «chi governa», ma «chi racconta»: «Chi ha la voce per dire il mondo, e con quali parole. E soprattutto, quale immaginario sarà in grado di sostenere, nelle coscienze, una democrazia futura». Tutto sta diventando teatro, un’opera totale. L’estetica del potere di Trump è regressiva, ma efficace: «Recupera gli strumenti arcaici della costruzione del mito in un’epoca dominata dai media istantanei». Il presidente è pienamente inserito nel fenomeno della «post-verità» che purtroppo promette di rimanere fra noi: era questa la parola chiave del 2016, secondo l’Oxford Dictionaries, l’anno della Brexit e della prima elezione del magnate.
«Post-verità» è la formula di successo degli architetti del caos e indica la prevalenza della percezione soggettiva della realtà sui fatti oggettivi. Ciò che avviene è confezionato e filtrato come un fai-da-te utilitaristico: non sempre la sfacciataggine della bugia conclamata, piuttosto l’ambiguità selettiva di prendere le parti funzionali ai nostri pregiudizi. Un linguaggio che non descrive il mondo, ma lo costruisce a propria immagine: non ha importanza che sia vero o verosimile, oltre che falso, ciò che conta è che la manipolazione funzioni. Padre Spataro vede nel linguaggio assertivo del presidente una combinazione fra estetica seducente e capacità di creare realtà discorsive rivolte all’inconscio simbolico degli elettori, che fanno della Casa Bianca «non una sede di governo ma una centrale narrativa».
Tuttavia, mentre lo show si svolge, la realtà resta fuori campo e il potere come narrazione mostra il suo volto più inquietante: «La guerra si trasforma in un episodio della serie «Trump! The Musical». Il conflitto reale, con le sue vittime, viene marginalizzato. Il dolore si dissolve dietro le luci della ribalta. Il sangue e le stragi diventano irrilevanti in questo spettacolo».
Per il gesuita, Trump dimostra che la politica contemporanea non può più essere interpretata attraverso le categorie della razionalità illuminista o della competenza amministrativa, perché il potere si esercita innanzitutto sul piano dell’immaginario, sul set trasgressivo e mediatico di un vasto palcoscenico: «Trump non governa: dirige. Non persuade: performa. Non negozia: racconta». Un linguaggio personalissimo e urticante, in cerca di visioni totalizzanti e contagiose. Quindi, conclude padre Spataro, se la politica è diventata un campo estetico, occorre un’estetica alternativa. Non soltanto una correzione nel segno della buona educazione e del Diritto, un cerotto su una retorica messianica per addomesticarla, ma un contro-racconto composto dalla profondità e dalla verità dei fatti invece dell’effetto immediato, dalla relazione al posto della divisione, dalla complessità e non dalla semplificazione.
© RIPRODUZIONE RISERVATA