
(Foto di Epa/Spencer Colby)
MONDO. Lo sforzo regolatorio e diplomatico per una «global minimum tax», o tassa minima globale, si è messo in moto una quindicina d’anni fa. Allora l’Ocse, organizzazione internazionale che unisce i Paesi di antica e consolidata industrializzazione (tra i quali l’Italia), ritenne giustamente di dover porre un freno al trasferimento di utili aziendali verso giurisdizioni con una imposizione fiscale molto bassa o quasi inesistente (i cosiddetti «paradisi fiscali»).
Tra i diversi strumenti pensati per raggiungere tale obiettivo, si è fatta strada l’idea di una imposizione fiscale effettiva del 15% da far pagare ai grandi gruppi multinazionali in ogni giurisdizione (tradotto: Paese) in cui si trovano a operare. Un progetto culturalmente ambizioso, complesso da realizzare tecnicamente, che è arrivato a un possibile momento di svolta all’ultimo G7 dei ministri dell’Economia. Le sette democrazie riunite in Canada hanno deciso da una parte l’esenzione per le aziende americane dalla «global minimum tax» del 15%, dall’altra la cancellazione di ogni possibile ritorsione su cui sta lavorando il Congresso di Washington con il progetto di «tasse vendicatrici» per qualunque Paese straniero tratti «ingiustamente» – a suo modo di vedere - i grandi gruppi a stelle e strisce (per esempio prevedendo digital tax per le aziende del settore big tech).
Le sette democrazie riunite in Canada hanno deciso da una parte l’esenzione per le aziende americane dalla «global minimum tax» del 15%, dall’altra la cancellazione di ogni possibile ritorsione su cui sta lavorando il Congresso di Washington con il progetto di «tasse vendicatrici» per qualunque Paese straniero tratti «ingiustamente» – a suo modo di vedere - i grandi gruppi a stelle e strisce (per esempio prevedendo digital tax per le aziende del settore big tech)
Ovviamente non sono mancate le critiche a questo neonato «regime parallelo» per le aziende Usa e per quelle degli altri Paesi. Per Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’Economia, si tratta di una manifestazione di debolezza della comunità internazionale che si è piegata ai desiderata del presidente Trump, oltre che di «una vittoria delle multinazionali sul popolo»: «I governi del G7 hanno deciso di anteporre gli interessi delle multinazionali a quelli dei Paesi in via di sviluppo, delle piccole e medie imprese (che non possono avvalersi degli imbrogli così redditizi per le multinazionali) e dei propri cittadini, i quali, di conseguenza, si ritroveranno a pagare tasse più alte». Parola dell’economista statunitense che negli ultimi anni è diventato il beniamino di tanti progressisti in tutto il mondo. E non mancano le critiche nemmeno da ambienti imprenditoriali. Secondo Alessandro Galimberti del Sole 24 Ore, quotidiano della Confindustria, «la tassa minima globale implementata in tutta l’area unionale attraverso una direttiva (quindi rendendola obbligatoria per gli Stati membri) finisce per tartassare le imprese dell’Ue senza colpire gli incentivi – molto pesanti – sussidiati dagli Usa alle proprie imprese, sussidi che fanno scendere la tassazione effettiva ben sotto il 15%. Incentivi che non possono essere adottati in Europa, causa Pillar 2 e compact fiscale».
Tuttavia, per molti imprenditori europei e non solo, quello raggiunto in Canada non è affatto un accordo da gettare alle ortiche. Innanzitutto perché, forse è banale dirlo, non erano gli Stati Uniti l’obiettivo principale della tassa minima globale, bensì i paradisi fiscali. Inoltre le aziende statunitensi non vengono esentate da ogni forma di imposizione fiscale
Tuttavia, per molti imprenditori europei e non solo, quello raggiunto in Canada non è affatto un accordo da gettare alle ortiche. Innanzitutto perché, forse è banale dirlo, non erano gli Stati Uniti l’obiettivo principale della tassa minima globale, bensì i paradisi fiscali. Inoltre le aziende statunitensi non vengono esentate da ogni forma di imposizione fiscale. Washington infatti nel 2017 ha introdotto un regime di tassazione minima (Gilti) per i profitti dichiarati all’estero che risultano sotto-tassati, con un’aliquota effettiva media e un metodo di calcolo dell’imponibile che non la rendono poi tanto più conveniente del progetto di tassa minima globale. Non solo: togliendo dal tavolo del negoziato la Section 899 del Big Beautiful Bill in discussione al Congresso americano, si disinnesca un possibile meccanismo di ritorsione nelle mani di Trump, pronto per essere utilizzato con qualsiasi pretesto, ristabilendo così per gli imprenditori almeno un po’ di certezza (fiscale) nei mesi a venire. Infine, come notato dal think tank europeista Bruegel Institute, quanto avvenuto «potrebbe contraddire le aspettative di quanti ritenevano che la tassa minima globale non sarebbe sopravvissuta al secondo mandato presidenziale di Trump». In altre parole, il confronto si mantiene sui binari di quel multilateralismo al quale la nuova Casa Bianca sembra a volte allergica, non deraglia su un terreno da Far west senza regole. Sono state forse considerazioni simili a spingere il nostro ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, a parlare di «compromesso onorevole». Un equilibrio difficile da preservare, frutto senz’altro di un atteggiamento più assertivo degli Stati Uniti a difesa dell’interesse nazionale (atteggiamento a dire il vero condiviso dal Congresso di Washington già negli scorsi anni), e che l’Europa dovrà tutelare ponendo fine in modo proattivo al suo monotono gioco di rimessa.
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