La Piccinini si racconta dopo il ritiro
«Bergamo, per me conti sempre tanto»

Piccinini, simbolo della pallavolo italiana e bandiera di quella rossoblù: «Qui ho imparato a vincere. A volte mi sveglio e penso di andare in palestra a fare allenamento: serve tempo».

La bambina che voleva sfidare Mila Hazuki è cresciuta ed è diventata grande. Grandissima, semplicemente leggenda. Ha ricamato il suo nome attorno alla storia della Foppapedretti, un po’ come gli scudetti e le toppe dei trofei internazionali si cucivano sulla casacca rossoblù, anno dopo anno. Ma il ricamo potente eppure dolce della storia di Francesca Piccinini è in realtà un filo che cinge l’intera parabola degli ultimi 25 anni della pallavolo italiana: lo dicono gli infiniti successi con i club – su tutti, i cinque scudetti e le sette Champions League – e quelli epici con la Nazionale, dal Mondiale dorato del 2002 all’Europeo del 2009.

Ora però Francesca Piccinini, per sempre la numero 12 del Volley Bergamo, la ragazza che all’ombra delle Mura è diventata donna e leggenda della pallavolo, la schiacciatrice che in 13 anni orobici (dal 1999 al 2012) ha vinto tutto, ha detto basta, e domenica il campionato di serie A1 comincerà senza di lei. Ha scelto di ritirarsi a 40 anni, da vincente, dopo aver sollevato quasi cinque mesi fa con Novara la sua settima Champions League, lei che a 14 debuttava in Serie A e meno di due anni dopo esordiva in Nazionale. Bergamo le resta nel cuore, perché qui è diventata «una vincente», e a Bergamo qualche volta tornerà, in tribuna al palazzetto, per gustarsi una sfida della Zanetti, per ritrovare vecchi amici.

L’annuncio è ormai noto. Ora, a mente fredda, che effetto fa sentirsi definire una ex giocatrice?

«È ancora strano, però sto metabolizzando. È stata una scelta importante e difficile: ho fatto per tutta una vita questo sport, non è semplice. Ci vuole tempo ancora, è un processo che si realizza piano piano, però sono convinta della decisione. A volte però ancora mi sveglio e penso di andare in palestra a fare allenamento: è normale, sono le prime giornate così. Certo, quelle sensazioni mi mancheranno tutta la vita».

Come è maturata la decisione?

«Ci ho pensato a lungo, poi il 18 maggio (il giorno della finale di Champions League poi vinta, la sua settima in carriera, ndr) me lo sono detta prima di scendere in campo: questa potrebbe essere la mia ultima partita. Quello del ritiro è sempre stato un pensiero lontano, però noi sportivi non possiamo farci nulla: prima o poi, sappiamo che quel giorno arriva. Mi piaceva l’idea di uscire dal campo da vincente per l’ultima volta: certo, avrei potuto giocare ancora per qualche anno, c’erano le possibilità, ma è stato meglio farlo così, alzando la mia settima Champions League da titolare».

Qual è il primo ricordo in palestra?

«È stata una passione innata, un po’ influenzata da un cartone animato: avevo i sogni di tutte le bambine, volevo giocare contro Mila in Giappone (sorride, ndr), con la Nazionale. Sono partita da una piccola palestra a Massa (la sua città, ndr), poi già a 14 anni ho debuttato in Serie A, e lì ci sono rimasta. La prima partita fu contro la Teodora Ravenna, una squadra che in quel periodo aveva vinto undici scudetti di fila, c’erano tutte le campionesse di allora. Fino a poco prima, chiedevo loro gli autografi: poi ci ho giocato contro, con alcune di quelle campionesse anche insieme. È stata una vita bellissima. Sono sempre stata determinata, i miei obiettivi si sono poi concretizzati, addirittura più grandi di ciò che mi aspettassi».

Tante squadre, ma una più di tutte: Bergamo. Cosa rappresenta, ancora oggi, Bergamo per Francesca Piccinini?

«Tanto, tanto. Con questa società siamo cresciuti insieme. Abbiamo vinto tanto perché alle spalle c’era una società solida: si vince anche così, non solo con le giocatrici, ma con i dirigenti che danno basi forti, sicurezze. Gli anni di Bergamo sono stati il mio momento di maggiore crescita: è qui che sono diventata una vincente, è qui che ho imparato a vincere».

C’è un ricordo più prezioso degli altri?

«Tutte le vittorie, perché dietro a ogni trofeo alzato c’è il sacrificio, la fatica. È impossibile scegliere, dire se è stata più bella la prima o l’ultima. E in mezzo c’è stato anche il Mondiale: inaspettato, con una Nazionale giovane che non vinceva e che invece ha svoltato».

E un momento difficile, un rimpianto?

«Cerco di vedere sempre solo le cose belle. Anche le sconfitte servono alla crescita dell’atleta, ti fanno migliorare. I momenti brutti li cancello».

Il legame è sempre restato stretto.

«Dopo l’addio, ogni volta che sono tornata ho trovato un affetto sempre più forte. La città è bellissima, mi ha accolto in maniera positiva, ho coltivato amicizie, mi sono sempre sentita sostenuta anche quando sono arrivata da avversaria. Perché il bello del volley è questo: non c’è astio, ci sono abbracci, tifo, applausi. E questo fa tanto. Ti ripaga di tutto».

Come è cambiata, in oltre 25 anni di carriera, la pallavolo?

«È cambiata completamente. Era più lenta e tecnica, ora è potente e veloce; per esempio non c’è più il cambio-palla, e questo l’ha resa più spettacolare. È cambiata anche la fisicità delle atlete. Però in tutti questi anni io sono andata dietro a questi cambiamenti e mi sono sempre fatta valere: ho tenuto fede alla tecnica, ciò su cui ho sempre lavorato, sin da bambina, e ciò che fa ancora la differenza».

E adesso, cosa farà? Si parla del mondo dello spettacolo…

«Adesso mi prendo un po’ di libertà, voglio pensare a me stessa, per cercare di iniziare una nuova vita e avere successo come nella prima. In questo momento non vorrei allenare, perché significherebbe stare in palestra tutto il giorno. Preferirei insegnare alle più piccole, come passatempo. Ora come ora non prendo impegni: la vita è così strana… Certo vorrei fare qualcosa fuori dal campo, per mettermi alla prova nuovamente».

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