«Vi racconto 30 anni di volley a Bergamo. L’addio? ho pianto»

L’INTERVISTA. Lo storico dirigente bergamasco Giovanni Panzetti ha concluso la sua esperienza. E spiega i segreti di decenni di grandi successi.

Non è che ci credessero in molti, quando mesi fa la voce circolava: «Panzetti smette». E invece, Giovanni Panzetti dopo oltre trent’anni di pallavolo ha davvero smesso. Ha detto addio al Volley Bergamo 1991, erede del Volley Bergamo, fu Foppa. Panzetti il burbero, Panzetti col caratteraccio, Panzetti l’uomo sempre in un angolo, qui si racconta.

Però, cosa ha pensato quando per l’ultima volta si è chiuso dietro le spalle la porta del Palasport?

«Non ho pensato a me, ho pensato al Palasport. A questa struttura meravigliosa, che certo ha tanti problemi e lacune, ma resta bellissima. E mi rende triste pensare che lì dove abbiamo vinto tantissimo presto si spegneranno le luci dello sport».

E il giorno dell’addio?

«L’affetto mi ha dato gioia. Ho pianto, certo, il giorno in cui ho messo la firma sulle dimissioni, anche se erano dimissioni già mentalmente digerite».

Ma perché questo addio?

«Perché è giusto. Perché ho 66 anni ed è ora. Perché preferisco uscire dalla porta principale anziché aspettare che decidano altri per me. E perché gli ultimi sono stati campionati di grandissime soddisfazioni».

Gli ultimi?

«Sì. Perché ci siamo salvati con un miracolo avendo l’ultimo budget della Serie A e avendo costruito la squadra a luglio. E poi siamo arrivati ai playoff e in finale di Coppa Italia e a parte Conegliano abbiamo battuto tutte almeno una volta andando molto oltre i pronostici di inizio stagione. In bacheca non finisce niente, ma li considero due campionati straordinari».

Con un percorso di crescita che non aveva voglia di continuare?

«E’ giusto che Andrea Veneziani abbia la possibilità di crescere e far fruttare l’esperienza di questi anni. Era questo il momento giusto per salutare. Si dice sempre che in questo Paese i giovani non hanno spazio... io lo lascio».

Riavvolgiamo il nastro? Com’è arrivato nel grande volley?

«Prima nel volley».

Da giocatore anche?

«Solo a livello amatoriale».

E poi?

«Poi un mio caro amico, Walter Fornasa, allenava e mi coinvolse in questa squadra, Bresciani, che poi fu fusa con la Mc Sport Carvico. Lì c’era un presidente molto rampante, si chiamava Fragalà, che decise di comprare l’Alzano fresco di scudetto. E io mi sono trovato nell’organigramma come allenatore dell’Under 18 e della Serie C. Con questa salimmo in B2, con l’Under vincemmo tre campionati regionali. Poi saltò tutto e andai ad allenare a Cologno al Serio. Da lì a Stezzano in C e ho conosciuto Gigi Sana. Nel contempo mi chiamò il presidente della Pallavolo Bergamo, il commercialista Guido Bianchi. La squadra era in A2 e lui voleva un direttore sportivo affidabile. Ci andai a mercato già chiuso. Retrocessi e ripescati, trovai sponsor, la famosa Mela d’Oro. Eravamo in A2, Bianchi voleva mollare e io dissi al Comune: se qualcuno va avanti bene, altrimenti finisce la pallavolo. Dal Comune mi presentano il dottor Mauro Ferraris, che aveva rapporti di lavoro con la Foppapedretti. Da lì è cominciata la storia di una trentina di trofei in bacheca».

Quale fu il segreto?

«La programmazione. La consapevolezza di poter agire in anticipo sul mercato sulla base di risorse chiare, definite».

Foppapedretti, basta la parola.

«Io ho avuto sempre carta bianca. Budget solidi e certi. Senza il loro impegno, senza la loro passione, senza la loro dedizione anche negli ultimissimi anni, tutto questo non si sarebbe potuto fare».

La Foppa è stata una favola vera.

«Sì, e Bergamo lo deve a una famiglia e a un presidente che io non posso immaginare migliore. Luciano Bonetti è un mio amico vero e il miglior presidente che un direttore sportivo possa avere. E non era giusto dire e sentir dire che realtà nuove non si facevano avanti perché c’era Bonetti che occupava la scena. I suoi appelli al ricambio erano sinceri. Quella fu una grave ingiustizia, un alibi per chi in verità non voleva dare una mano».

Il suo giorno più bello con Bonetti?

«Lo scudetto con Novara, la finalissima vista uno accanto all’altro, io con un giubbetto verde e lui con una maglietta rosa che conserva appesa in ufficio».

E il momento più brutto?

«Quando ha deciso definitivamente di smettere».

Poi è nato il Volley Bergamo 1991. E adesso forse si può dire: è nato anche perché lei e altri avete messo soldi di tasca vostra per cominciare.

«Adesso lo posso dire, anche perché mia moglie lo sa...».

Ma quindi dietro questo addio c’è solo il momento giusto, o non si sentiva più a suo agio?

«C’è solo e soltanto questo: è ora di pensare ad altro».

Quindi non vedremo Panzetti vincere altrove?

«No, il Volley Bergamo è stata la mia vita. Interruppi dal 1999 al 2001, per contrasti vari. Andai a Forlimpopoli e portammo la squadra dalla B1 alla A2. Ma non è più tempo. E’ tempo di andare al mare più di prima».

Torniamo all’amarcord: la sua operazione di mercato migliore?

«Ne direi due. Liouba Kilic, perché dalla Russia hanno fatto di tutto per impedirci di prenderla. E noi abbiamo scalfito quel muro. E poi Leo Lo Bianco. Ci misi tantissimo a convincerla, e da lì è nata anche un’amicizia profonda, oltre alle soddisfazioni sportive».

E la trattativa fallita?

«Non ho mai cercato obiettivi impossibili, ho sempre provato a prendere il possibile. Per cui non saprei...»

Dai, trent’anni di volley e mai un passo falso?

«Sì, ce l’ho. Un anno siamo primi e si fa male Skowronska. Cerco un rimedio all’estero, arrivo all’opposto di riserva della Nazionale russa, che nella sua squadra non era pagata. Tutto fatto, contratto fatto, ma la Federazione russa nega il nulla osta. Con quella giocatrice forse avremmo vinto uno scudetto in più. Questa storia mi è rimasta sullo stomaco, sì».

Viceversa: il colpo di genio?

«Presi la Galastri dalla A2, pagata pochissimo: è diventata la centrale della Nazionale. Scelsi la Gruen, scelsi la Poljak: non tutti erano convinti, invece sono diventate importantissime. Ma anche Merlo, e tante altre».

Lo scudetto migliore?

«Per l’emozione quello vinto contro Novara dopo 7 match point contro, partendo da 0-2 per loro. Ma il più bello è stato quello vinto con Mazzanti, alla quinta partita, ad Assago davanti a 12mila persone. E perché Davide Mazzanti fu una grande scommessa vinta».

Cosa deve avere il suo allenatore ideale?

«Capacità e competenza tecnica, ovviamente. Avere apertura mentale nel non arroccarsi su determinate convinzioni e saper gestire un gruppo».

Amico degli allenatori o ruoli distinti?

«Ruoli distinti, sempre. Sono diventato amico di Mazzanti e Lavarini quando sono andati via».

E scontri con gli allenatori?

«Sono diventati bravi anche per certi scontri, forse (ride, ndr). Io sono famoso per alcune sfuriate, che però non ho mai fatto fini a se stesse. Ho sempre provato, anche con le giocatrici, a trasmettere qualcosa di logico».

Con chi più scontri?

«Direi con Fenoglio. A suo modo era un genio, ma esagerava con le dichiarazioni. Vincemmo la Coppa Campioni e disse cose esagerate. Lo chiamai, gli feci uno shampoo, misi in fila le Coppe vinte prima di lui e a parte la sua. Davanti a lui riunii le coppe e gli dissi: anche la tua l’abbiamo vinta noi, non soltanto te. Tempo qualche settimana era fuori».

Un cambio di allenatore che le è umanamente costato?

«Quello che riguardò Mario Di Pietro. Lo portai qui al mio rientro e si trovò nella difficoltà di gestire il finale di carriera di Maurizia Cacciatori. Ci furono polemiche e alla fine lui pagò la situazione. Mi dispiacque tantissimo».

E con le giocatrici? Solo dirigente o anche amico, fratello, confidente...

«Tutto questo, nel rispetto dei ruoli. Posso anche fare da padre a una giocatrice, ma come ogni padre posso e devo dire anche cose spiacevoli. Certo, devi esserci quando la giocatrice ha bisogno. Ma ci devi essere sempre restando nell’ombra, senza manie di protagonismo. Esserci ma sempre con uno stile discreto».

Spogliatoi polveriere?

«Certo che sì, capita. Bisogna saper gestire».

Lacrime per le dimissioni... e per una vittoria?

«Mai. Grandissime emozioni, indimenticabili. Mai lacrime perché saper gestire le emozioni fa parte del bagaglio di un dirigente e del suo stile che non è quello del tifoso. Tifoso lo sarò, per sempre, da adesso».

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