«Auto, con l’elettrico Bergamo rischia»

Scenari per il 2023/1. Uliano (Fim-Cisl): «In Lombardia si stima la perdita di 19mila posti di lavoro nel settore». «La nostra provincia subirà un impatto pesante. Interessato da trasformazioni chi produce impianti frenanti»

C’è poco da fare quando un motore tradizionale si avvale di circa 7 mila componenti e uno elettrico della metà. E allora diventa «essenziale accompagnare la sostenibilità ambientale con quella sociale». Perché il rischio, come spiega Ferdinando Uliano, segretario della Fim-Cisl nazionale con delega alla contrattazione e all’automotive - con cui inauguriamo un ciclo di interviste dedicate agli scenari economici rispetto al 2023 - è la perdita di circa 75 mila posti di lavoro a livello nazionale nel settore dell’auto».

Quanti, invece, in Lombardia e nella nostra provincia?

«In Lombardia, secondo una stima che si basa sui codici Ateco, che è comunque relativa, gli occupati a rischio sarebbero quasi 19 mila su un totale di circa 32 mila. Va considerato che la maggior parte delle attività legate alla componentistica per l’automotive si concentra tra Bergamo e Brescia e quindi è prevedibile che saranno questi due territori a subire l’impatto maggiore».

Quali sono le imprese che rischiano di scomparire e quali, invece, subiranno una profonda trasformazione?

«Innanzitutto va detto che l’Italia è il primo produttore di componentistica in Europa e rifornisce tutte le case automobilistiche, concentrandosi, per il 30%, sui motori benzina e diesel. Con la grande trasformazione in atto nel comparto, dettata dai vincoli europei che

hanno stabilito che il 2035 è il termine ultimo per la vendita di automobili dotate di motori endotermici, si perderanno attività come, ovviamente, la produzione di “vecchi” motori, del sistema di trasmissione (l’albero motore, la frizione, il cambio), del sistema di avviamento, del sistema di alimentazione - basti pensare ai serbatoi - e del sistema di scarico. Sarà coinvolto da trasformazioni ad esempio chi produce gli impianti frenanti, il sistema di raffreddamento, lo sterzo e le sospensioni. Poi si pone un altro problema».

E cioè quale?

«Le case automobilistiche hanno a loro volta ridotto l’occupazione, perché servono meno lavoratori per assemblare i componenti dei motori elettrici e stanno cercando di riportare al proprio interno attività che vengono svolte fuori».

Come si governa un processo così complesso?

«Il problema è compensare la perdita di posti di lavoro introducendo altre tipologie di produzioni che attualmente nel nostro sistema industriale non sono presenti: basti pensare che gran parte dei componenti elettronici è prodotto in Cina e nel Sud Est asiatico. Ad ogni modo esiste un tavolo governativo dedicato al settore auto, che si è insediato in modo costruttiva già da inizio 2021 ed è dotato di un fondo di circa 8 miliardi di euro da sviluppare nei prossimi otto anni per aiutare la riconversione industriale, cosa che stanno facendo già da tempo i governi francese e tedesco».

Questa cifra imponente, in particolare, a cosa è destinata?

«Sia il governo Draghi che il governo Meloni hanno utilizzato circa 650 milioni l’anno per incentivare l’acquisto di auto elettriche. Ma le risorse non possono essere destinate solo agli incentivi, ma, come continuiamo a ripetere da tempo come sindacato, vanno messe a terra per favorire la riconversione delle produzioni. E poi bisogna fornire nuove competenze ai lavoratori e c’è da sviluppare tutto il tema degli ammortizzatori sociali nel momento in cui un’azienda si deve fermare per mettere in campo gli investimenti necessari per modificare l’attività».

Qual è il rischio più incombente?

«Le multinazionali stanno iniziando a spostare gli investimenti sull’elettrico, ma il rischio è che le piccole e medie imprese non ce la facciano, subendo un continuo calo da qui ai prossimi cinque anni con contraccolpi sui livelli occupazionali».

Delinea un quadro cupo.

«Il quadro è cupo nel momento in cui si sta fermi».

Più in generale, invece, che situazione immagina per il nuovo anno che si è appena aperto?

«Si può prevedere che ci sarà una flessione rispetto alla crescita a cui abbiamo assistito nel 2021 e 2022 per effetto dell’uscita dall’emergenza sanitaria. Poi c’è il tema dei costi che devono sostenere le imprese e che in parte si stanno riducendo, ma c’è comunque la diminuzione dei margini che potrebbe impattare negativamente sui livelli occupazionali».

E per i metalmeccanici che futuro si prospetta?

«Il metalmeccanico medio per ogni punto di inflazione perde tra i 18 e i 19 euro al mese e nel contratto nazionale (rinnovato il 5 febbraio 2021, ndr) è già stabilito il recupero a partire da giugno di quest’anno del dato inflattivo Ipca misurato a maggio, con aumenti in busta paga che potrebbero variare tra gli 80 e i 100 euro mensili e che vanno a recuperare la perdita che i lavoratori del settore hanno già ampiamente subìto l’anno scorso».

© RIPRODUZIONE RISERVATA