Cartabellotta (Gimbe): «Senza vaccino la quarta ondata sarebbe stata un’ecatombe»

Intervista a Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe: «Il virus destinato a diventare endemico. Sistema sanitario da ripensare: la pandemia ha evidenziato le debolezze»

Senza il vaccino, sarebbe stata «un’ecatombe». Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, tra i principali osservatori dell’evoluzione della pandemia e – più in generale – attento conoscitore del sistema sanitario, mette in chiaro l’importanza della scienza. Cioè di quella ricerca che ha consegnato un vaccino che ha decisamente attutito gli effetti di un’ondata dai numeri esorbitanti. La pandemia, oltre le cifre quotidiane, ha poi posto una sfida ineludibile: «Ha enfatizzato i punti deboli del Servizio sanitario nazionale», rileva il medico. Partendo però dai dati epidemiologici del presente, Cartabellotta nota che «dopo tre settimane consecutive di sostanziale stabilità del numero dei nuovi casi è iniziata la discesa: da una media di oltre 180mila a circa 143mila al giorno (a livello nazionale, ndr). Tuttavia, con quasi 2,7 milioni di positivi la circolazione del virus è ancora molto elevata e induce più a un cauto ottimismo che a uno sfrenato entusiasmo, ancora non sostenuto dai numeri. Anche sul fronte ospedaliero si registra un rallentamento, ma i tassi di occupazione nazionali rimangono elevati: 30% in area medica e 16% in terapia intensiva».

I numeri dei decessi, tra l’altro, continuano a impressionare.

«La curva dei decessi, che come abbiamo imparato è l’ultima a scendere, purtroppo è ancora in salita: in media mobile a 7 giorni abbiamo raggiunto i 375 decessi al giorno. Tuttavia, bisogna sempre interpretare i numeri assoluti tenendo conto della diffusione del virus. Infatti, da metà ottobre 2021 abbiamo avuto oltre 14mila decessi con oltre 6 milioni di casi: ovvero un tasso di letalità dello 0,2% e un tasso di mortalità a 24 per 100 mila abitanti. Se consideriamo l’intera durata della pandemia i rispettivi tassi sono dell’1,3% e di 245 per 100 mila abitanti».

Sono dati in linea con gli altri Paesi?

«Al di là dei confronti sul numero dei decessi negli altri Paesi, un dato è certo: in Italia si vive molto di più, ma si invecchia male. E questa suscettibilità della popolazione over 65 inevitabilmente aumenta la letalità del virus».

Senza la protezione del vaccino, che ondata sarebbe stata?

«Con questo numero di casi, un’ecatombe. Al netto della minor gravità della variante Omicron va rilevato che nell’era pre-vaccini veniva ricoverato in area medica circa il 5-6% dei positivi e lo 0,5-0,6% in terapia intensiva. Oggi con quasi 2,7 milioni di positivi abbiamo meno di 20mila pazienti in area medica e 1.593 in terapia intensiva. Se da un lato le elevate coperture vaccinali ammortizzano l’impatto della circolazione virale sugli ospedali, dall’altro l’ingente numero di positivi incontra una popolazione suscettibile troppo numerosa».

Gli ospedali vivono quotidianamente l’emergenza da quasi due anni. Quali sono le conseguenze sulla cura delle altre patologie?

«Nel nostro Paese la saturazione ospedaliera ha di fatto accompagnato tutte le ondate epidemiche, costringendo a cancellare e rimandare prestazioni sanitarie non urgenti. Ai danni diretti del Covid-19 si sono sommati quelli indiretti, collegati a ritardi di accesso ai servizi sanitari e all’annullamento di prestazioni urgenti o differibili, fondamentali per salvaguardare la salute, in particolare quella dei pazienti più fragili e affetti da malattie croniche».

Quanto hanno pesato, in quest’emergenza, gli errori di programmazione sulla medicina territoriale?

«La pandemia ha enfatizzato i punti deboli del Servizio sanitario nazionale, in primis l’imponente definanziamento, pari a circa 37 miliardi di euro nel periodo 2010-2019, e i conflitti di competenze tra governo e Regioni. Oltre ovviamente a far emergere la necessità di un rafforzamento delle cure primarie che devono prima transitare da un suo profondo ripensamento, con il pieno accordo delle parti politiche e professionali. Non è un problema solo di risorse, ma occorrono modelli organizzativi nuovi, non più compatibili con contratti e convenzioni attuali. Le cure primarie del futuro devono garantire un’assistenza di qualità attraverso una variabile articolazione di setting per intensità di cura: dalle cure intermedie all’assistenza domiciliare, dalla prevenzione alla riabilitazione sino alle cure palliative».

Qual è il futuro del virus? Diventerà endemico e conviveremo periodicamente con ondate più leggere e gestibili?

«Siamo di fronte a un virus con elevata capacità di mutare e che con le sue varianti ha rivoluzionato più volte gli scenari e messo in difficoltà i servizi sanitari in tutto il mondo. In altre parole, al netto dell’emergenza di nuove varianti più contagiose, più gravi o con maggiori capacità di evasione immunitaria, il virus dovrebbe progressivamente diventare endemico, ma come tutti i virus respiratori rialzerà la testa durante la stagione autunno-inverno».

Si possono fare previsioni sulle prossime ondate?

«Ovviamente, è impossibile al momento fare previsioni sull’entità di tali ondate e sulla capacità di gestirle, ma è possibile fornire tre raccomandazioni sempre valide: i servizi sanitari e i decisori politici devono giocare d’anticipo per non trovarsi sempre in svantaggio sul virus; dovremo “tollerare” alcune misure di protezione individuale; infine, servono meno parole e più fatti per vaccinare l’intera popolazione mondiale, per contrastare l’emergenza di varianti in grado di scombinare le carte in tavola».

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