«Condividere il cammino è importante
in un tempo segnato dalla solitudine»

L’INTERVISTA. Il vescovo Beschi al termine del pellegrinaggio: Europa, avoro, migrazioni e fede comunitaria i temi toccati. Il Vangelo vissuto insieme: «La testimonianza sociale fa lievitare e dà un gusto migliore alla vita». I volti del pellegrinaggio in una foto gallery.

Europa, lavoro, migrazioni e fede comunitaria sono i quattro temi che il vescovo Francesco Beschi ha approfondito nel pellegrinaggio diocesano che in questa settimana ha varcato i portali delle principali chiese gotiche nel cuore d’Europa tra Belgio, Francia e Germania, e che ieri è terminato con l’ultima tappa a Lione. Qui i duecento bergamaschi hanno osservato la città dalla collina di Fourvière che domina la città con il santuario di Notre-Dame, per poi scendere nel centro, un dedalo di viuzze molto caratteristiche strette tra i fiumi Rodano e la Saône, prima di ripartire alla volta di Bergamo. Un pellegrinaggio di tanti chilometri e allo stesso tempo caratterizzato da tante occasioni per riflettere su argomenti che ci toccano da vicino. Ne parla il vescovo in questa intervista perché l’esperienza vissuta con i pellegrini possa essere condivisa con tutta la diocesi.

Sono stati giorni intensi, di grandi meraviglie e scoperte di santuari poco conosciuti. Cosa le resta di questa esperienza?

«La soddisfazione di veder corrisposte le nostre attese. Il tratto Mariano che è caratteristico di tanti pellegrinaggi l’abbiamo vissuto intensamente da NotreDame fumante a quella in ricostruzione, per poi concentrarsi su un santuario che non è molto conosciuto ma è molto attraente come quello di Banneux nei pressi di Bruxelles. Poi a Parigi i luoghi nascosti, modesti, rappresentati dal santuario della Madonna della Medaglia miracolosa e anche dalla chiesetta dove sono custodite le spoglie di San Vincenzo».

I volti del pellegrinaggio diocesano in Francia e Belgio

Ecco una carrellata di volti e ricordi del pellegrinaggio con il vescovo Francesco Beschi.

Bruno Bonassi

Abbiamo toccato con mano l’Europa, quella istituzionale, con l’ingresso nell’emiciclo del Parlamento dove si prendono le decisioni che incidono su tutti i Paesi membri, Italia compresa. Come interpreta il percorso di questa Europa?

«Il progetto Europa, al di là dei governi che si succedono e al di là delle riserve che a volte abbiamo rispetto ad alcune scelte, rimane sempre un grandissimo valore, a partire da quello della pace. Sappiamo che proprio in Europa oggi è in atto una guerra e quindi quanto sia importante questa visione di pace che il progetto Europa ha voluto costruire. Non dico che non ci siano alternative all’Europa, ma che l’Europa è una tappa importante della storia dei nostri Paesi. La tappa, appunto, costruita sull’intenzione di creare delle condizioni per cui tra i popoli europei non si consumino guerre».

I pellegrini sono rimasti estasiati dall’imponenza delle cattedrali. A lei quali sentimenti hanno mosso?

«Questo viaggio è stato caratterizzato da visite per noi non solo artistiche, ma direi spirituali, alle grandi cattedrali gotiche della Francia. La meraviglia suscitata è sempre anche un atteggiamento che si apre alla ricerca di Dio, si apre a un nutrimento dello spirito che oggi avvertiamo particolarmente necessario. Anch’io ho percepito la forza comunicativa di questo itinerario dell’anima».

Un’Europa delle grandi cattedrali che, pur essendo capolavori visitati da milioni di persone, oggi non rappresentano più il riferimento centrale delle città. In Belgio e Francia la secolarizzazione ha galoppato e la Chiesa si è riorganizzata. Succederà anche da noi?

«Certamente il cambiamento anche a Bergamo è molto veloce e quindi la consapevolezza, a volte sofferta, di questa velocità non possiamo nascondercela. Noi viviamo alcune dinamiche che vanno in direzione di una progressiva secolarizzazione, con la trasformazione della religione in un fatto estremamente privato e individuale. Quindi la costruzione di una società a prescindere dalla religione. Allo stesso tempo la storia italiana è diversa dalla storia francese e dei Paesi più a nord della Francia dove si vive un’indifferenza religiosa o comunque una privatizzazione della religione molto forte».

Qual è questa particolarità che le fa pensare a una Bergamo diversa?

«Ecco, io non ho una risposta a questa domanda su cosa succederà a Bergamo. Io dico che c’è una originalità dell’esperienza italiana, dell’esperienza bergamasca. Un’originalità che io vorrei alimentare continuamente con convinzione, coinvolgendo tutti coloro che ci stanno, per creare una relazione tra la fede e la vita. Vorrei diffondere questa preoccupazione, che non è ansietà, ma è passione. Se il Vangelo e la fede non riescono a far lievitare la vita, a dare alla vita un gusto migliore… beh, a quel punto capisco che l’indifferenza è inevitabile. Bisogna partire dalla testimonianza personale della fede. Insieme a quella comunitaria - e il pellegrinaggio ne è un esempio - e a quella sociale. Queste prospettive possono ancora essere sostenute e alimentate nella nostra terra».

In questi giorni abbiamo riflettuto sul tema del lavoro: il passato con la sicurezza e la dignità calpestate nella miniera di Marcinelle e l’oggi con orari più flessibili e certi per una maggiore qualità della vita. In Francia e Belgio non si inizia prima delle 10, si finisce alle 18, venerdì tutti a casa da mezzogiorno e la domenica negozi chiusi. Non crede che questo modello di lavoro potrebbe garantire maggiore socialità in terra bergamasca da sempre arroccata sul lavoro sempre e comunque?

«Noi a Bergamo abbiamo una grande cultura del lavoro. Tante volte io ho sostenuto che a Bergamo non solo si lavora tanto ma si lavora bene e il lavorare bene è un valore morale da custodire, e non è soltanto la buona realizzazione di un prodotto ma tutto ciò che comporta quella realizzazione. Secondo me noi, in tutta Italia, abbiamo un problema: quello della produttività. E per questo abbiamo ritenuto che si debba lavorare di più. Penso che allora questo discorso della produttività, che è un discorso importante nel mondo del lavoro, potrebbe più avere a che fare con una intensità nel modo di lavorare con una presenza, una disponibilità, un’attività, un’intelligenza molto forte. Questa mi sembra una differenza. Quindi non si tratterebbe tanto di allargare tempi di lavoro: sabato, domenica, di giorno, di notte. Ma si tratterebbe di affrontare il lavoro con un criterio che dice: bene, in questo momento richiede tutte le mie energie, anche perché mi può permettere poi di avere degli spazi. A mio giudizio, soprattutto spazi per la famiglia, che sono decisivi per la mia vita».

Altro tema importante che ha offerto spunti di confronto è quello dell’immigrazione. Nelle capitali che abbiamo visitato c’è convivenza ma non integrazione. Noi siamo più accoglienti o assisteremo alle stesse dinamiche dei Paesi del Nord?

«Noi abbiamo un approccio diverso e quindi quello che abbiamo visto in Belgio e in Francia non fa scuola per noi. Noi portiamo la ricchezza della nostra cultura che è capacità di interpretare la realtà con quella varietà che in altri Paesi è meno presente. C’è una capacità italiana di interpretare i problemi, in altri Paesi non è così. Di fatto questi Paesi hanno applicato dei modelli che funzionano perché sono ben pensati, ben articolati, ma alla fine si sono rivelati insufficienti. Un modello di natura economica, quindi con rigidi protocolli sulla manodopera, ma funzionano come possono funzionare modelli che poi se non si adattano alla realtà rimangono una gabbia. Spesso è avvenuto in Francia, che certamente è un Paese con immigrazione molto più importante di quella italiana, da sempre. Noi abbiamo un approccio diverso, da noi un modello non c’è, andiamo oltre l’economia: stiamo parlando di umanità, di persone da accogliere. Quanti bambini e quante donne stanno arrivando? Dobbiamo staccarci da questa visione - ancora purtroppo europea - che l’immigrazione sia un’emergenza, l’immigrazione è un fatto strutturale della nostra società. Io amo molto parlare di interazione, queste persone sono dei soggetti, sono portatori di una loro responsabilità, di una loro cultura. Inclusione vuol dire assorbire, mentre con l’interazione riconosco quello di cui sei portatore. Cerchiamo di costruire una realtà nella quale le nostre reciproche ricchezze possono diventare ricchezza di tutti».

Chiudiamo con la figura del pellegrino: età e paesi di provenienza diversi, in alcuni casi caratteri originali, in viaggio insieme, non per turismo ma per un approfondimento spirituale. Tutti coinvolti da un tratto comune: la positività di vivere l’esperienza in chiave comunitaria. Quanto è ancora viva questa dimensione nella Bergamasca?

«È ancora forte e mi sembra ancora più necessaria dopo l’isolamento causato dalla pandemia. Il pellegrinaggio di fatto mette nella condizione di condividere 24 ore su 24 - e 8 giorni non sono pochi - la vita con gli altri. Questo è un fatto che provoca. Ma accompagnarsi, qualche volta anche sopportarsi, arricchisce perché si condivide un valore, addirittura si condivide la fede, se non la fede una ricerca, e questo unisce molto. È come se le persone in qualche modo rivelassero agli altri qualcosa di molto profondo di sé e quando questo avviene è sempre creatore di un’intesa, di un qualche cosa che stupisce, di qualcosa che unisce. Io quindi credo che questa dimensione della condivisione del cammino della vita sia importante in un’epoca in cui, come dice il Papa, la grande malattia è la solitudine. Ora mi dispongo a un nuovo pellegrinaggio con più di mille giovani della diocesi che si avviano verso Lisbona. Desidero celebrare la Giornata mondiale della Gioventù, nonostante l’età, condividendo tutto il viaggio insieme. Un viaggio piuttosto lungo, impegnativo, ma sono convinto che la condivisione diventi una grande strada perché le persone possano aprire il cuore. E l’incontro diventa veramente qualcosa di generativo».

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