Crollo delle nascite in Bergamasca: sono dimezzate rispetto agli anni Sessanta

I NUMERI . Nel 1961 si contavano circa 14mila nuovi nati, oggi 7.461. Nel 2031 un residente su 4 over 65. Gori: «ll Paese dia priorità assoluta a questo tema».

È una metafora, ma anche la traduzione della realtà. Da un lato c’è una vecchia foto in bianco e nero, ormai un po’ scolorita, con tre bebè ritratti. Accanto, sullo stesso tavolo, o magari su uno smartphone, c’è un’altra istantanea, ma con un solo bambino raffigurato. In mezzo, ci sono circa sessant’anni di distanza. Ecco, la crisi delle culle sta in questo parallelo: nel fatto che in poco più di mezzo secolo il tasso di natalità si sia ridotto di quasi due terzi. Nascevano tre bambini, ora ne nasce uno. Succede in Bergamasca, ma è così sostanzialmente anche nell’intero Paese: nel 1961 in provincia di Bergamo si contavano infatti quasi 19 nati ogni mille abitanti, nel 2022 lo stesso indicatore s’è rimpicciolito a 6,8 nati ogni mille abitanti. In mezzo c’è un mondo cambiato, stravolto, passato dal baby boom all’inverno demografico. Perché nel 1961 in Bergamasca nascevano circa 14mila bambini a fronte di 744mila residenti, mentre nel 2022 n onostante la popolazione sia salita oltre il milione e 100mila abitanti, +48% rispetto al 1971 – il dato in valore assoluto è quasi dimezzato, con 7.461 nuovi nati.

«Il tema più importante»

«È un tema molto grande, che investe tutta l’Europa», ricorda Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, da tempo attento alla questione demografica, anche perché «i dati proiettano una situazione nel medio-lungo periodo immensamente preoccupante». Così preoccupante, dice Gori, «da doversi stupire che non sia in assoluto ciò di cui il Paese si debba occupare prima di qualsiasi altro tema». Il quadro che emerge affiancando i dati decennio per decennio, fino al crinale post-pandemico e ancora verso le proiezioni Istat al 2031, racconta di mutazioni profondissime. Nel 1961, ad esempio, i bambini fino ai 5 anni rappresentavano il 10,8% dei residenti in Bergamasca: già nel 1991 sono precipitati al 5,8%, sul primo scorcio degli anni Duemila s’è colto un timido rimbalzo, oggi sono il 4,49% e nel 2031 scenderanno al 3,78%. Di contro, gli anziani crescono: i bergamaschi oltre i 65 anni erano appena il 7,5% nel 1961, oggi sono il 22,14% e nel 2031 supereranno il 25,8%. Più di uno su quattro. «Dobbiamo porci il problema di come determinare un equilibrio demografico – rimarca Gori - e non c’è una sola misura. Occorre uno sforzo speciale per creare le condizioni più idonee perché le famiglie possano mettere al mondo più figli». La prima strada richiede di «favorire il lavoro femminile, la centralità dell’emancipazione, con due obiettivi: sostenere la crescita economica, con un apporto di nuove lavoratrici, e portare un secondo reddito all’interno della famiglia. Serve una gamma di politiche: orientamento, formazione, soprattutto sostegno alla condizione femminile nel momento in cui le donne si trovano al bivio tra lavorare e fare figli».

Spariscono i lavoratori

La crisi demografica ha un riflesso concreto anche in termini di mancanza di manodopera: i l avoratori non si trovano più anche perché le persone «mancano». Guardando ai bergamaschi tra i 20 e i 50 anni, cioè nel pieno della fase produttiva, nel 1961 rappresentavano il 41,41% della popolazione totale, e nel 1991 – quando sono diventati adulti anche i figli del baby boom – la quota è salita addirittura al 47,20%. Oggi questa platea s’è assottigliata al 37,48%, nel 2031 scenderà al 34,71%. Solo tra 2011 e 2023, i 20-50enni bergamaschi sono calati di 67mila unità. E se il rilancio della natalità può avere effetti concreti solo in un arco di vent’anni (se le nascite iniziano a salire oggi, i «nati in più» entreranno nel mondo del lavoro solo tra almeno vent’anni), per il presente c’è da ragionare sull’immigrazione. «Chi contrappone immigrazione e rilancio della natalità lo fa per ragioni ideologiche o per miopia politica – commenta Gori -. Sono lontanissimo dal ritenere che si debbano aprire le porte a tutti, ma penso che sia possibile considerare l’immigrazione come positiva per il Paese, a condizione che i processi siano governati e guidati lungo un binario di legalità. Diversi Paesi hanno investito sull’immigrazione prevenendo l’insorgere dei problemi, creando canali d’ingresso legali, pianificando gli ingressi sulla base delle necessità dei sistemi produttivi. L’Accademia dell’integrazione, pur piccola, è stata un’esperienza positiva».

Famiglie «small»

Si «restringono» anche le famiglie: nel 1961 il 31,5% dei nuclei bergamaschi (quasi uno su tre) era formato da almeno 5 componenti (tipicamente i genitori più almeno tre figli), oggi ha questa morfologia solo il 5,17% dei nuclei (uno su 20). I nuclei con un solo componente erano il 10,60% nel 1961, oggi sono il 33,78% e nel 2031 diventeranno il 36,67%. «La composizione dei nuclei si lega anche al welfare familiare – aggiunge Gori -. E se le famiglie sono sempre più piccole, segnate anche da forte mobilità, questi legami rischiano di saltare: si mette in discussione un elemento che ha connotato la storia italiana». Ma cosa può fare un’amministrazione locale? Può lavorare su alcuni fronti, spiega Gori. Sull’immigrazione, e dunque sull’immediato in termini di sostenibilità del sistema economico, «stiamo cercando di creare un dialogo che coinvolga Università, Confindustria e settori produttivi, per esempio mappando le aziende bergamasche che operano in Africa, per capire dove si possano trovare condizioni per sviluppare progetti». Sulle politiche di conciliazione, e dunque per favorire la natalità, «prima del Covid avevamo allocato un milione di euro su una serie di misure. Se potessimo mettere a disposizione più posti negli asili nido a costi contenuti, saremmo in grado di aumentarne la frequentazione e di costruire uno dei pilastri necessari a liberare il tempo delle donne, per rendere la maternità un’esperienza più facile. Gli asili nido andrebbero messi anche al centro delle politiche di welfare aziendale».

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