«È stato un papà romantico,
dal carattere deciso ma mite»

Roberto Bruni nel ricordo della figlia Chicca che racconta il volto casalingo. Su L’Eco di Bergamo in edicola giovedì 12 settembre, sei pagine dedicate alla figura dell’ex sindaco.

L’uomo pubblico Roberto Bruni era un papà romantico. La secondogenita, Federica (Chicca), nel congedarsi per un paio di minuti dalla camera ardente, ripete più volte questo aggettivo. Forse per illuminare un tratto sfuggito ai più, che tuttavia non sorprende. Una virtù racchiusa nelle solide pareti domestiche, nel privato di una personalità che ha dato molto e ricevuto altrettanto dalla propria famiglia.

«Papà – racconta Chicca, che è un libro aperto, un accumulo di intense emozioni e di bei ricordi – comunicava con gli occhi luminosi. Capivamo subito i suoi umori, le soddisfazioni, le preoccupazioni. Il suo testamento emotivo non è stato quello di imporci un indirizzo, ma ci ha lasciato libere di trovare la nostra strada». Lei si rivede ragazzina, con il poster di Che Guevara in camera, e la scritta: «Bisogna rimanere duri senza perdere la tenerezza». Riprende questa frase suggestiva per riadattarla e completare, con la voce rotta dall’emozione, l’affresco psicologico dell’avvocato: «Papà è stato soprattutto un romantico e un mite. Non ha mai confuso la bravura con l’arroganza e la decisione con la determinazione a tutti i costi».

Lo rivede tornare a casa, sistemare giacca e cravatta sulla poltrona, ascoltare e lasciarsi interrogare nelle pieghe della quotidianità. Così è stato fino all’ultimo, fino al crollo finale in un crescendo di pochi giorni, l’ultima tappa di un calvario durato sei anni e cadenzato da otto interventi chirurgici. Il papà e il paziente, per Chicca, oncologa-pediatra, riassunti con affetto e dolore: «Ha affrontato la malattia in modo assolutamente eroico, è stato bravissimo. Non si lamentava: “facciamo anche questa”, mi diceva, raccontandomi delle sue paure e delle sue speranze. Per me è stato molto impegnativo, anche perché la terapia doveva combinarsi con la sua agenda professionale, ma pure bellissimo».

L’avvocato non ha abbandonato la trincea, lavorando sino alla fine accanto all’altra figlia, Barbara, tenendo a bada finché ha potuto il nemico irriducibile che lo insidiava: «Amava tantissimo la sua professione, una grande passione. Il suo carico di lavoro era impressionante. Quando era sindaco diceva che organizzava così le sue giornate: otto ore in Comune, otto in studio e otto, sonno compreso, a casa. Gli piaceva molto stare con noi, parlare di tutto, sedersi accanto ai nipotini Andrea e Chiara, guardare qualsiasi sport alla tv». A casa si portava le pratiche dello studio e, nei ritagli, leggeva i gialli, specie quelli dell’amato Simenon, e, in modo compulsivo, i quotidiani. Noi possiamo aggiungere un suo cruccio, che ci confidava negli ultimi anni: aveva pochissimo tempo per leggere i giornali, per quanto a questo parziale vuoto rimediasse la moglie, Maria Teresa, che gli segnalava i pezzi della grande cronaca e di politica che non voleva perdere.

Per Bruni era naturale intrattenersi soprattutto con i cronisti di nera e di giudiziaria, li considerava un po’ di famiglia. Simpatia reciproca. Chiedeva la loro impressione sugli aspetti umani delle vicende processuali, indagava la personalità dei protagonisti, cercava le radici delle patologie criminali. Coglieva il dato di costume. Nell’album di famiglia pescava le immagini dell’esplosione di gioia la sera dell’elezione a sindaco: «Ha saputo incassare la mancata rielezione e se n’è fatta una ragione. Non mollava, però: avanti con la prossima sfida, ci diceva. Né permaloso né rancoroso. Aveva uno stile suo: ascoltava e metteva insieme i pezzi, ma si assumeva la responsabilità del processo decisionale. Una roccia». La passionaccia politica, in parallelo a quella per l’avvocatura, riusciva a silenziare il male che pretendeva udienza: «Durante la formazione del nuovo governo insisteva nel dire: “che tristezza queste trattative”. Poi probabilmente avrebbe appoggiato il Conte bis, perché ne capiva l’utilità. Colpiva questo suo attaccamento alla politica in un momento per lui assai tormentato».

Una vita affollata da contatti umani: «Era rimasto colpito dal tratto del vescovo Roberto Amadei, con il quale si intratteneva in lunghe conversazioni. Due uomini così apparentemente diversi, eppure vicini: papà, benché agnostico, era profondamente spirituale». Con Chicca, consigliere comunale, i Bruni sono alla quarta generazione: «Sì, ma non parlerei di un’eredità morale da portare avanti. Se gli avessi detto che avrei fatto tutt’altra cosa, sarebbe stato lo stesso. Per lui l’importante era che io fossi contenta. Ti stava molto vicino, senza investire sulle proprie aspettative. Quando sono stata in Burkina Faso e al seguito di Mare Nostrum come medico, mi ha lasciata libera di decidere: sapendomi soddisfatta, era felice per me e mi ha incoraggiata». Ci sono le ultime istantanee, i titoli di coda di un’esistenza felice. I giorni estivi in alta Val Brembana dalla figlia, la vacanza a Sirmione con la moglie. Gli amici fedelissimi, l’allegra brigata sarpina, lo zoccolo duro dell’adolescenza, quasi tutti medici: Guido Perani, Guido Turconi, Mario Previtali, Carlo Bertulessi, Andrea Astulfoni. E soprattutto Sergio Arnoldi: le telefonate quotidiane, le discussioni sui problemi della città, i giorni felici nuotando a Pantelleria. Nella camera ardente, accanto alla salma, siede la moglie di Bruni. «C’è un dolore molto forte per il distacco – conclude la figlia – ma, essendo il loro un rapporto simbiotico, per la mamma, per tutti noi, papà ci sarà sempre».

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