«Esserci per gli altri alimenta una speranza che non è illusione»

L’INTERVISTA. Monsignor Francesco Beschi traccia un bilancio del Giubileo della Speranza che si chiuderà alle 18 in Cattedrale. Diretta su Bergamo Tv e sul sito. Alle 17,10 andrà in onda la versione integrale dell’intervista.

Bergamo

Sarà la pace il tema forte su cui il Vescovo di Bergamo, monsignor Francesco Beschi, incentrerà la propria riflessione nella Lettera pastorale che offrirà alla Diocesi il prossimo anno. Lo anticipa lo stesso Vescovo nell’intervista che segue, e che sarà trasmessa integralmente da Bergamo Tv e sul nostro sito questa domenica pomeriggio alle 17,1 0, prima della diretta della celebrazione della Messa di chiusura del Giubileo della Speranza, in programma alle 18 in Cattedrale (diretta anche sul nostro sito). «La pace – spiega Beschi –, perché per un cristiano, alla luce anche della Parola biblica, riassume tanti beni».

Eccellenza, oggi si «chiude» il Giubileo della Speranza: che Giubileo è stato?

«Il termine “chiusura” lo adotto solo per dire che, di fatto, succede così, nel senso che anche le Porte Sante si chiuderanno a Roma e si concluderà una serie di iniziative e celebrazioni che hanno caratterizzato quest’anno. È stato un anno giubilare nel segno della speranza e vorrei sottolineare questa scelta di Papa Francesco. Non solo perché di speranza c’è sempre più bisogno, ma perché è una virtù che rappresenta una forza morale necessaria in questo momento: la speranza del credente e la speranza di tutta l’umanità. Credo che, sotto questo profilo, l’anno giubilare abbia lasciato un segno. Le persone lo hanno vissuto in modi diversi, qualcuno sarà rimasto indifferente, ma ciò che “si chiude” in realtà apre a ciò che la speranza vuole rappresentare nel cuore degli uomini».

«Non solo perché di speranza c’è sempre più bisogno, ma perché è una virtù che rappresenta una forza morale necessaria in questo momento: la speranza del credente e la speranza di tutta l’umanità»

C’è una frase di San Paolo citata spesso per indicare la forza intrinseca della speranza: «Spes contra spem», sperare anche quando ogni ragione suggerirebbe il contrario. Secondo lei da dove deriva questa forza?

«Lo dico a partire da ciò che ho vissuto quest’anno e dai tanti incontri che ho avuto: la forza viene dalla fede. E quando dico fede, ci tengo a precisare che è innanzitutto una condizione, una scelta, una disposizione di ogni persona umana. Quando parlo con i giovani dico spesso: non si può vivere senza fede. La fede in Dio apre a un universo infinito, a una sorgente inesauribile. I cristiani danno un nome a questa fede: Gesù Cristo. Ma la fede è anche qualcosa di profondamente umano. È il pane della speranza. Fede vuol dire fiducia, fedeltà. La persona umana vive di questi sentimenti: “mi posso fidare?”. Penso ai bambini che ci guardano: senza dirlo, ci interrogano proprio con questa domanda. Per alimentare il desiderio, lo sguardo sul futuro, la progettualità, è necessaria la fede. Per il credente questo è evidente nella fede in Dio, ma è qualcosa che riguarda l’umano in quanto tale. La speranza si alimenta con la fede».

«Esserci per gli altri. Le persone devono avvertire che, anche quando non abbiamo soluzioni, noi ci siamo. Ci siamo con rettitudine, con onestà, non per interesse. Questa scelta alimenta una speranza che non è illusione»

Lei cita spesso una frase sulla speranza che il Cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca di Gerusalemme dei Latini, ha pronunciato nell’incontro che lei e i Vescovi della Lombardia avete avuto questo autunno durante il pellegrinaggio della Conferenza Episcopale Lombarda in Terra Santa.

«L’incontro con il Cardinale è stato preziosissimo e desidero che avverta sempre la vicinanza di questa comunità che gli è tanto cara. L’incontro è culminato con una domanda sulla speranza. La sua risposta è stata chiara e provocatoria: “Qui non si intravedono ragioni di speranza”, nel senso che ogni soluzione immaginata appare insufficiente o impraticabile, contrastata da mille ragioni. Però aggiunse: “Noi crediamo”. Mi ha colpito molto perché è la forza della fede – in questo caso, della fede in Dio – che sostiene una speranza che non è semplicemente “attendiamo che le cose vadano meglio”, ma è resistenza alla disperazione. E c’è una cosa, forse la più importante, che il Patriarca ha detto: “esserci”. Esserci per gli altri. Le persone devono avvertire che, anche quando non abbiamo soluzioni, noi ci siamo. Ci siamo con rettitudine, con onestà, non per interesse. Questa scelta alimenta una speranza che non è illusione».

«Solo i bambini hanno uno sguardo naturalmente luminoso: anche nel buio i loro occhi lo sono, perché sono limpidi. I nostri occhi si offuscano non solo con l’età, ma anche con la vita: delusioni, problemi, fatiche. Lo sguardo della speranza è uno sguardo illuminato: per il cristiano dall’esperienza della fede e dalla Parola del Vangelo»

Lei ha detto che con la speranza si può cambiare sguardo sulla vita. È davvero così?

«Sì, è proprio così. E la domanda mi permette di dire che la speranza non coincide con l’ottimismo. L’ottimismo è spesso legato al carattere, alla personalità. La speranza invece è uno sguardo. E per intravedere la luce, lo sguardo deve essere illuminato: ci deve essere una luce che illumina il nostro sguardo. Solo i bambini hanno uno sguardo naturalmente luminoso: anche nel buio i loro occhi lo sono, perché sono limpidi. I nostri occhi si offuscano non solo con l’età, ma anche con la vita: delusioni, problemi, fatiche. Lo sguardo della speranza è uno sguardo illuminato: per il cristiano dall’esperienza della fede e dalla Parola del Vangelo. Io insisto molto: oggi, in un Paese non più diffusamente cristiano, bisogna tornare alla sorgente, tornare alla luce del Vangelo. Ma anche chi non crede, per avere uno sguardo sulla realtà che preveda la speranza, deve avere uno sguardo illuminato».

Per caratterizzare nella Diocesi quest’anno giubilare lei ha voluto promuovere le manifestazioni della speranza. Perché ha voluto lanciare questa iniziativa e che bilancio può trarne?

«Il Giubileo ha alcune espressioni esteriori: il pellegrinaggio, le Porte Sante. Questa volta, secondo la tradizione del Giubileo ordinario, le Porte Sante erano solo a Roma. Mi sono chiesto: come possiamo “coinvolgere” anche qui, esprimere la speranza che nasce dalla fede del cristiano? Ho pensato a un’espressione non “interna”, non una processione o una celebrazione, ma un’iniziativa aperta a tutti: una manifestazione “laica”, nel senso di accessibile a tutti, che rappresentasse ragioni di speranza. È nata così l’idea della “treccia della speranza”: una treccia colorata lunga più di 90 metri, preparata per la Festa delle Missioni, diventata il segno di un corteo festoso. Volevo bande e bandiere, perché fosse un segno visibile anche per chi guardava. La treccia era il segno di unità, a cui tutti si agganciavano. All’inizio c’ero io, spesso con tanti bambini e ragazzi, e devo dire che qualche volta mi toccava “tirarli” tutti, e tirare 90 metri non è semplicissimo. Ma la cosa eccezionale sono state le testimonianze».

In ciascuna iniziativa ha voluto dare spazio proprio alle testimonianze. Le ha ascoltate tutte con grande attenzione: che riflessioni trae da questa esperienza?

«Vorrei che la consapevolezza – anche dentro tante fatiche – fosse alimentata da questo riconoscimento: la “treccia della speranza” è un tessuto fatto di mille fili. Nella singolarità i fili rischiano di scomparire, ma quando si intrecciano non si può dire “va tutto male, è tutto una catastrofe”. Non è vero. Ci sono infinite persone che magari non appariranno mai, non hanno potere, “non contano” nel senso comune del termine, eppure costruiscono motivi di speranza e risposte di speranza in tanti ambiti: fragilità, situazioni psichiatriche, emarginazioni, famiglie, giovani, percorsi di ricostruzione positiva. Abbiamo ascoltato davvero moltissimo e per me è stato prezioso. Anche la partecipazione è stata sorprendente: non me l’aspettavo».

«Mi è rimasta nel cuore la prima, a Sotto il Monte, nella Cet 8, la Comunità ecclesiale territoriale dell’Isola Bergamasca, proprio perché era la prima e ci chiedevamo: “Ci sarà gente? Come succederà?”. Vedere crescere l’esperienza durante il cammino stesso è stato un buon inizio»

C’è una testimonianza, senza far torto alle altre, che le è rimasta nel cuore in modo particolare?

«Mi è rimasta nel cuore la prima, a Sotto il Monte, nella Cet 8, la Comunità ecclesiale territoriale dell’Isola Bergamasca, proprio perché era la prima e ci chiedevamo: “Ci sarà gente? Come succederà?”. Vedere crescere l’esperienza durante il cammino stesso è stato un buon inizio. Come l’attacco di un pezzo musicale: se attacchi bene, hai buone premesse. Poi ce ne sono state tante. Le testimonianze, e l’organizzazione, sono state buone in tutte le Comunità Ecclesiali Territoriali. E devo dire che anche l’ultima mi ha molto sorpreso, perché in città uno pensa sempre “la città è difficile”, e invece la risposta e il coinvolgimento sono stati superiori a ogni attesa».

Cambiamo orizzonte. In aprile si è chiuso il Sinodo delle Chiese in Italia, che in realtà avrebbe dovuto chiudersi nell’ottobre del 2024. Ma è successo qualcosa di imprevisto: ci racconta cosa?

«Sì, è successo qualcosa di imprevisto, maturato negli ultimi due giorni prima dell’Assemblea che rappresentava tutte le diocesi italiane. Era un cammino preparato da quattro anni di lavoro, con circa 500mila persone coinvolte. È vero: molti forse non ne sanno molto, non ha investito tutti, ma in questi anni non c’è stata in Italia un’iniziativa che abbia coinvolto così tante persone. Il lavoro di revisione della vita della Chiesa è culminato in un documento. Ci siamo riuniti all’inizio dell’anno per approvarlo. Una bozza era stata presentata mesi prima e sembrava aver raccolto un consenso. Due giorni prima dell’assemblea è arrivato un testo molto più sintetico: non contrario alla bozza, ma fortemente ridotto. E ci siamo ritrovati in Assemblea con grande perplessità. Questa perplessità si è manifestata in modo forte: alcune questioni erano praticamente scomparse e la ricchezza dei quattro anni non risultava rappresentata. Si è arrivati alla votazione: non è stata una sorpresa, perché il dibattito aveva evidenziato una diffusa insoddisfazione. È stato un momento forte, che ha coinvolto tutti e che ha anche sorpreso tutti. I Vescovi hanno deciso di sospendere l’Assemblea prevista per maggio e lavorare a una riproposizione del lavoro precedente. È nato così un nuovo documento, sul quale si è votato: circa 150 proposizioni, una per una. Tutte dovevano raggiungere una maggioranza qualificata dei due terzi. Alla fine il documento è stato approvato. Ora inizia un cammino successivo, affidato anche ai Vescovi: abbiamo deciso di assumere il documento e di concretizzarlo in piste di lavoro per i prossimi anni, perché è molto ampio».

Quali sono le questioni più importanti discusse al Sinodo?

«Direi una questione fondamentale: il rapporto tra fede e vita. Oggi non c’è solo “la questione Dio”: la questione è cosa dice la fede – cosa dice Dio – alla vita degli uomini. Un tempo la fede illuminava e dava significato alla vita in tutti i suoi aspetti. Oggi spesso non accade più, anzi, talvolta anche persone che vivono la comunità cristiana interpretano la vita quasi a prescindere dalla fede. Da qui derivano tanti temi: famiglia, lavoro, fragilità, cultura, comunicazione, partecipazione sociale. Non li guardiamo come “temi solo interni”: sono temi di tutti, perché o la fede dice qualcosa alla vita di tutti – credenti e non credenti – oppure diventa un “di più” per qualcuno».

È già possibile dire quali frutti porterà il Sinodo nella nostra Diocesi?

«Un lavoro è stato fatto, ma deve essere ancora molto sostenuto. I primi frutti li indicherei in un metodo e in uno stile. Il metodo sinodale è un modo di lavorare in cui la responsabilità di tutti – in ordine alla fede e alla vita cristiana – è valorizzata: del battezzato, della mamma e del papà, del professionista, di chi lavora, dell’ammalato. La questione non è più “dei preti” – e non solo perché i preti diminuiscono – ma perché la fede non è una questione “solo di preti”. Oggi, attraverso organismi e forme partecipative, si deve sviluppare la consapevolezza della responsabilità di ciascuno. E più ancora del metodo, conta lo stile: nessuno è padrone del Vangelo, nemmeno i preti o i vescovi. Siamo tutti al servizio, ognuno con la propria vocazione e missione. Questo è un frutto che già possiamo cogliere, ma che deve maturare».

Si dice spesso che la Chiesa sia «lenta» rispetto alla velocità con cui viaggia il mondo. Ma, per come sono andate le cose, sembra che il Sinodo e la Chiesa abbiano mostrato il contrario. Può essere anche un messaggio per la politica?

«C’è una questione legata alla velocità dei processi – tecnologici e scientifici – rispetto al ritmo della vita umana. Come conciliare questi due piani? Le relazioni umane hanno tempi diversi: o rinunciamo alla nostra umanità, oppure dobbiamo trovare modalità per restare umani dentro una velocità tecnica molto sostenuta. A livello sociale facciamo fatica ad assumere queste velocità. Il grande tema della partecipazione ci interroga fortemente: sembra che i tempi della partecipazione non siano sostenibili rispetto alla velocità di altri processi. La Chiesa, soprattutto sotto il profilo della partecipazione, ha rappresentato qualcosa di interessante. Lo vedo anche visitando le parrocchie: pur con numeri ridotti e con l’invecchiamento dei partecipanti, un modo di partecipare esiste e va incentivato. Sul piano più ampio – sociale e politico, nazionale e internazionale – penso anche a quanto Papa Leone sta insistendo sul tema dell’unità: unità dei cristiani e unità del genere umano, che non è uniformità. La diversità come ricchezza in vista di un’unità multiforme è una prospettiva che Papa Francesco ha promosso e che Papa Leone intende proseguire».

«Sono molto soddisfatto e soprattutto riconoscente per l’accoglienza che mi è stata riservata. Ho visitato circa 150 parrocchie su quasi 400: anche comunità piccole, sotto i mille abitanti. È stata una grande gioia incontrare, ascoltare, condividere, pregare. Soddisfazione anche dal punto di vista pastorale: ho incontrato tante persone di buona volontà, di tutte le età, che dedicano tempo, intelligenza, fede»

Secondo lei le modalità con cui si è svolto il Sinodo possono aiutare il Paese a ritrovare fiducia?

«Le persone che hanno partecipato attivamente a questo cammino sinodale – e non sono poche – sono intenzionate a non fare solo discorsi interni alla Chiesa, ma a portare un contributo alla vita sociale. La frammentazione la sperimentano tutti: il senso di solitudine e di abbandono è diffuso; la concentrazione su di sé è una tentazione presente anche nel mondo giovanile, pur accanto a esperienze positive di comunità. Credo che questa esperienza possa rappresentare un modo di stare nella vita del Paese non da spettatori rassegnati. Se guardiamo la partecipazione alle elezioni, potremmo sentirci disillusi. Ma queste persone – e non solo i vescovi – non sono rassegnate».

Finite le celebrazioni natalizie riprenderà anche il cammino del Pellegrinaggio pastorale, che si avvia alla conclusione. È soddisfatto del percorso fatto fin qui?

«Sono molto soddisfatto e soprattutto riconoscente per l’accoglienza che mi è stata riservata. Ho visitato circa 150 parrocchie su quasi 400: anche comunità piccole, sotto i mille abitanti. È stata una grande gioia incontrare, ascoltare, condividere, pregare. Soddisfazione anche dal punto di vista pastorale: ho incontrato tante persone di buona volontà, di tutte le età, che dedicano tempo, intelligenza, fede. Persone che non pensano a sé stesse, ma a un bene per tutti. E lo fanno gratuitamente, senza altri interessi. Questo merita di essere valorizzato. È stato anche un tentativo di non essere autoreferenziali: custodire un’identità, certo, ma un’identità aperta che entra in relazione con gli altri. Oggi è fondamentale, altrimenti il ripiegamento e la chiusura portano alla morte».

«La città non è fatta solo dai suoi abitanti: c’è chi viene a lavorare, gli studenti, il turismo. Sono dinamiche cittadine che incidono sulla vita di chi ci vive. È impegnativa, sì, ma mi dispongo con gioia: ci sono nato»

Nell’ultima parte il Pellegrinaggio si focalizzerà sulle parrocchie della città. Possiamo dire che sia la parte più difficile?

«Non lo so. Posso dire che sono nato in città, cresciuto in città e gran parte del mio ministero è stato in città. Quando sono venuto a Bergamo, i primi anni li ho passati girando la provincia e mi sono innamorato di questa terra, che mi piace tutta. Quando ho immaginato questa visita pastorale, avevo pensato di cominciare dalla città, perché la città ha caratteristiche originali e impegnative. Ma poi ho iniziato altrove. La città però resta decisiva: è piccola rispetto a grandi metropoli, eppure è centro attrattivo per un’infinità di persone. Al mattino, quando mi alzo, prego immaginando tutte le persone che entrano in città e la sera quelle che tornano a casa. La città non è fatta solo dai suoi abitanti: c’è chi viene a lavorare, gli studenti, il turismo. Sono dinamiche cittadine che incidono sulla vita di chi ci vive. È impegnativa, sì, ma mi dispongo con gioia: ci sono nato».

«È un anno segnato dal Pellegrinaggio pastorale: dall’incontro con le comunità nella loro vita quotidiana. È stato segnato dall’anniversario dei miei 50 anni di sacerdozio. Ricordo quando, da giovane, vedevo sacerdoti festeggiare questi traguardi e pensavo: “Quanto sono vecchi”. E invece ora ci sono anch’io. Ringrazio il Signore per un’esperienza ricchissima, che per me ha avuto qui il suo culmine: è il tempo più lungo del mio ministero»

Il 2025 è stato per lei un anno particolarmente importante anche perché ha festeggiato il cinquantesimo di ordinazione sacerdotale. Come definirebbe il suo 2025?

«È un anno segnato dal Pellegrinaggio pastorale: dall’incontro con le comunità nella loro vita quotidiana. È stato segnato dall’anniversario dei miei 50 anni di sacerdozio. Ricordo quando, da giovane, vedevo sacerdoti festeggiare questi traguardi e pensavo: “Quanto sono vecchi”. E invece ora ci sono anch’io. Ringrazio il Signore per un’esperienza ricchissima, che per me ha avuto qui il suo culmine: è il tempo più lungo del mio ministero. C’è anche la consapevolezza che una parte della vita ha il sapore delle conclusioni: non mi rattrista e non mi porta a ripiegarmi, ma mi rende riconoscente. Visita pastorale, anno giubilare, il mio “giubileo” dei 50 anni di Messa, e ormai vicini anche i 75 anni di età. E dentro, lo dico con chiarezza, c’è anche un’inquietudine: non paura, ma il mondo oggi inquieta. E però tutto ciò che ho ricordato su come un cristiano vive situazioni inquietanti ha caratterizzato questo 2025».

«Penso che l’animo bergamasco – per cultura e storia – sappia interpretare il bene della pace oltre i confini della Chiesa. E la pace si nutre di rettitudine e onestà: non ci può essere pace senza rettitudine e senza onestà. Si nutre di responsabilità e di libertà: libertà responsabile»

Tra pochissimi giorni entreremo nel nuovo anno. Gli ultimi anni sono stati pesanti: Palestina, Ucraina, molti conflitti nel mondo. Che augurio sente di fare ai bergamaschi?

«Un augurio che si riassume in una parola: pace. Lo anticipo qui: il prossimo anno vorrei scrivere una Lettera sulla pace, perché per un cristiano – alla luce della Parola biblica – la pace riassume tanti beni. Auguro pace alla nostra comunità, che apprezzo e amo. Paolo VI ha istituito la Giornata mondiale della pace il primo gennaio; e i Pontefici hanno indicato le condizioni concrete della pace. Penso che Papa Giovanni resti un grande maestro: alla fine della vita offrì sé stesso per la pace nel mondo. Il mio augurio di pace si accompagna a condizioni fondamentali. Penso che l’animo bergamasco – per cultura e storia – sappia interpretare il bene della pace oltre i confini della Chiesa. E la pace si nutre di rettitudine e onestà: non ci può essere pace senza rettitudine e senza onestà. Si nutre di responsabilità e di libertà: libertà responsabile. E si nutre anche della verità delle cose: siamo nel mondo della comunicazione e lo dico esplicitamente, l’onestà ha a che fare con la verità. Infine, della solidarietà. Questi – rettitudine, verità, libertà, solidarietà – sono i quattro pilastri della pace di Papa Giovanni e sono le condizioni che auguro alla nostra comunità, perché la pace non sia solo evocata come speranza irraggiungibile, ma perseguita giorno dopo giorno».

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