«Francesco, una vita da Libro Cuore»

LA SCOMPARSA. I colleghi ricordano Donati, vigile del fuoco morto per un malore a 44 anni. «Nel caos degli interventi gli restavano impressi i dettagli più umani». «Un uomo poco convenzionale, mai scontato. Ma tutto d’un pezzo».

Pare una scena a metà tra un film d’azione e un western con John Wayne. «Eravamo impegnati a spegnere un incendio che aveva interessato delle palazzine ad Alzano. Stavamo tagliando il tetto, c’era tanto fumo ed eravamo in difficoltà perché avevamo finito le bombole d’ossigeno. All’improvviso da tutto quel fumo compare lui con la sigaretta in bocca, tranquillissimo». Massimiliano Gaini, compagno di corso e di mille interventi di Francesco Donati, sorride e si commuove. «Era sempre con la sigaretta in bocca - aggiunge -, ne fumava decine al giorno. Sarebbe potuto morire di qualsiasi cosa, ma non così». Non così. E cioè, non per un’emorragia cerebrale su un bus di linea mentre alle sei del mattino di lunedì, seppur fuori servizio, si stava dirigendo al comando dei vigili del fuoco di via Codussi per partecipare insieme ad alcuni colleghi a un corso Usar («Urban search and rescue») a Milano. Francesco, Franci come lo chiamavano gli amici di Redona dove era cresciuto (poi si era trasferito a vivere con la compagna Zaira e i figli Daniele e Camilla di 11 e 14 anni a Longuelo, dove lunedì alle 10 verranno celebrati i funerali), è finito in coma all’ospedale Papa Giovanni dove è morto giovedì, a 44 anni.

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«Non era un tipo scontato, aveva un modo di vivere poco convenzionale ed era un uomo tutto d’un pezzo - ricorda il collega Giovanni Munaò -. Era una persona “rupestre”, un po’ grezzo, spontaneo, diceva sempre ciò che pensava». «Informale - specifica il suo caposquadra Cristiano Comotti -, ma preciso, attento, preparatissimo e molto professionale. Tanto è vero che era istruttore del Saf, il Soccorso speleo fluviale. Voleva imparare, era sempre in prima linea e curioso delle novità. E poi schietto: se doveva dirti qualcosa non si faceva riguardi. Quando c’era lui negli interventi eri tranquillo. E i nuovi arrivati lo adoravano, lo avevano come punto di riferimento. Il segreto? Forse il modo di fare che ti appassionava. E, in effetti, per Francesco questo, più che un lavoro, era una passione».

Il servizio di leva in via Codussi

Con Gaini nel 1998 aveva svolto il servizio di leva al comando dei vigili del fuoco di Bergamo. «Una volta finito, lui aveva lavorato per qualche anno come elettricista, mentre io ero stato assunto dal 118. C’ero io alla guida dell’ambulanza con cui era stato soccorso suo fratello, coinvolto in un grave incidente con la moto. Fortunatamente si era poi ripreso col tempo - racconta Gaini -. Ma la passione ci era rimasta. Abbiamo fatto gli ausiliari, poi, il 27 gennaio 2010, siamo diventati vigili del fuoco entrambi. Un corso di sei mesi a Roma, poi due anni al distaccamento di Zogno e nel 2013 eccoci a Bergamo. Stessa camerata, armadietti vicini. Domani (oggi, ndr) - s’incupisce - dovrò svuotare il suo».

«Quand’è arrivato qui era il mio pupillo - confida Flavio Luiselli, 60 anni, del Saf -. Oltre ai soccorsi in montagna e nei fiumi, andavamo nelle aziende a istruire il personale che deve introdursi nei silos o in serbatoi, infilarsi in cunicoli o in torri di 30 metri come quella della funicolare di Città alta dove sono sistemati i contrappesi».

«Diceva spesso una frase: “Questa scena è da Libro Cuore” - ricorda Munaò -. Sugli interventi, anche i più difficili, non gli sfuggivano mai i dettagli “umani”. Ad esempio, gli rimaneva impresso, magari dopo un incendio che aveva distrutto un’abitazione, l’uomo che era contento perché era riuscito a salvare un oggetto che a noi pareva insignificante dentro a tutta quella distruzione, ma che per lui era importante. E sì, Francesco aveva una profonda umanità, perché spesso, una volta terminato l’intervento e compilato il protocollo, si fermava a sistemare la serratura di una porta che avevamo rotto per entrare o a rimontare l’ultimo pensile. Si immedesimava molto nelle persone che soccorrevamo».

«Sigaretta in bocca anche nelle situazioni estreme, persino a -30° - continua Munaò -, sempre calmo, a volte un po’ mattacchione. Come dopo un intervento in montagna, durante il quale eravamo riusciti ad arrivare prima del Soccorso alpino e a trasportare un ferito a valle in barella, a piedi e per chilometri. Eravamo spompati, ma mi disse: “Dai, adesso facciamo 50 flessioni”. E le abbiamo fatte dietro l’ambulanza che stava caricando l’infortunato. E però sensibilissimo. S’era appuntato mentalmente tutti i dettagli “sentimentali” degli interventi e aveva intenzione di scrivere un suo Libro Cuore. Non ha fatto in tempo. Però, sa che le dico? Che da Libro Cuore è stata la sua vita».

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