Giovani e disagio: nel 69% la pandemia ha lasciato ferite

Gli esperti: patologie psichiatriche in aumento. «La sfida educativa: ricostruire relazioni di qualità».

Abuso di alcool e sostanze stupefacenti, disturbi alimentari, autolesionismo che si spinge spesso fino a gesti estremi. Complice anche la pandemia, e la sua onda lunga che ha lasciato ferite aperte. Sono queste le problematiche che oggi, come non mai, investono i giovani.

Per questo motivo, e con l’obiettivo di supportare le famiglie e gli educatori a cogliere i segnali del disagio giovanile al fine di prevenirlo e curarlo, gli esperti si sono confrontati sul tema nell’Aula magna dell’Università degli studi di Bergamo durante un seminario dal titolo eloquente: «Il dolore sommerso». Organizzato dalla stessa università, in collaborazione con il Centro di psicoterapia integrata di Bergamo e con l’Associazione Stefano Berzi, il seminario ha fatto luce su quanto il disagio giovanile si declini in maniera sempre più grave e diffusa.

L’allarme nei numeri

Si parte dai numeri, che sono allarmanti. «La Fondazione Soleterre e l’Unità di ricerca sul trauma dell’Università Cattolica di Milano hanno evidenziato come, su un campione di giovani tra i 14 e i 19 anni, il 17,3% degli adolescenti pensa che sarebbe meglio morire o dice di volersi fare del male – ha sottolineato nel suo intervento Andrea Valesini, caporedattore de L’Eco di Bergamo –. Il 69,3% afferma che il trauma da pandemia è diventato parte della propria identità, il 34,7% fatica ad addormentarsi. Inoltre l’Agenzia italiana del farmaco ha attestato che tra la primavera del 2020 e quella del 2021 il consumo di psicofarmaci tra gli under 17 è aumentato del 20%». Le richieste di aiuto al servizio Telefono Amico sono triplicate rispetto al periodo pre Covid.

Andrea Valesini: «Bisogna insegnare ai nostri ragazzi ad accettare la propria fragilità»

Non va meglio nella nostra provincia, dove, sempre secondo quanto riportato da Valesini, nell’ultimo anno e mezzo, a causa anche del Covid e dell’isolamento, sono aumentate le patologie psichiatriche ed è stato registrato attraverso gli ingressi al pronto soccorso il 20% in più di tentativi di suicidio, nei ragazzi il 40%: «La fragilità non è accettata come parte integrante del nostro essere, mentre bisogna insegnare ai nostri ragazzi ad accettarla, anche per superarla. C’è anche poi da domandarsi come sia possibile che siti internet che spiegano come compiere atti di autolesionismo o che addirittura offrono sostegno a chi vuol suicidarsi non vengano chiusi».

Il rettore Cavalieri: «La Dad è stata utile, ma rischia di essere fattore di distanziamento»

«Tornare alle relazioni»

«Il senso di solitudine e di poca stima di sé non finiranno con le restrizioni dettate dalla pandemia, ma hanno una radice più profonda – ha avvertito Stefano Nembrini, preside dell’Istituto secondario di primo grado Vest di Clusone –. La nuova sfida educativa è quella di essere per i nostri figli i testimoni di un cammino possibile per loro. Un cammino che pur nelle difficoltà sia ricco del senso del bene».

Un disagio, quello giovanile, che si manifesta anche in azioni semplici, come quella di riprendere a frequentare l’università in presenza: «Quello che prima era uno strumento utile, la Dad, adesso rischia di diventare un fattore di distanziamento sociale che nasconde anche la difficoltà di relazione con gli altri – ha sottolineato il rettore dell’Università, Sergio Cavalieri –. Un problema che abbiamo registrato tra i nostri studenti. Adesso tocca a noi capire come fare per rimettere su una strada più lineare, e meno tortuosa, la vita dei ragazzi».

Il preside Stefano Nembrini: «Dobbiamo essere testimoni di un cammino possibile»

«È innegabile il fatto che il disagio dei giovani è stato acuito da questi due anni di pandemia – ha ribadito Marco Lazzari, direttore del Dipartimento di Scienze Umane e Sociali di Unibg –. La Dad ha salvato gli aspetti didattici e ha comunque contribuito a tenere vivo il rapporto con gli studenti. Certo è che questa è una generazione che vive fortissime tensioni e, non sapendo come gestirle, si chiude in se stessa».

Un «dolore sommerso» quello che oggi vivono tanti giovani e che, a volte, non trova altro modo per essere espresso se non attraverso gesti estremi. Gesti che però posso essere evitati se si sanno cogliere i sintomi del disagio. Non ultimo la difficoltà di relazione o di conflitto con i genitori per cui esiste una terapia specifica: «Si chiama Abft, Attachment-based Family Therapy – ha spiegato la psicologa e psicoterapeuta Cristina Morrone –. Nasce da teorie interpersonali secondo le quali negli adolescenti la depressione e il suicidio possono essere scatenati, aggravati o attutiti dalla qualità delle relazioni interpersonali in famiglia. Si tratta di un modello di trattamento basato sulla fiducia e focalizzato sulle emozioni, che mira a riparare le rotture nei rapporti interpersonali e a ricostruire una relazione genitori-figli che offra protezione e sicurezza emotive».

Giupponi (Ats): «I servizi attuali non bastano. Devono essere potenziati»

«Potenziare i servizi»

La tematica del disagio giovanile è stata oggetto di riflessione anche per le nostre strutture sanitarie: «Dobbiamo fare in modo che i nostri servizi guardino di più questi problemi e che mettano al centro del loro interesse i giovani e le loro famiglie – ha dichiarato Massimo Giupponi, direttore generale di Ats Bergamo –. La domanda di aiuto che arriva dai ragazzi è su temi complessi e per questo non bastano più i servizi che abbiamo già in campo. La pandemia ci ha insegnato che da soli non si va da nessuna parte, per questo bisogna potenziare i servizi territoriali».

Presenti al seminario anche il prorettore Stefano Tomelleri, il direttore del Centro di psicoterapia integrata di Bergamo Luca Pievani e l’avvocato Stefania Baranca. I lavori si sono chiusi con la lettura di brani di Stefano Berzi, giovane scrittore bergamasco scomparso tragicamente nell’estate del 2020.

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