«Il disagio invisibile cresce nelle famiglie: 25mila giovani non studiano né lavorano»

L’intervista. Il sociologo di Ats, Iorio Riva: «Su 27mila ragazzi che si sono avvicinati al gioco d’azzardo solo 500 hanno chiesto aiuto. Gran parte di loro non sa che è possibile rivolgersi ai servizi. Ora mettiamoci in rete».

Oggi i confini, le forme e le categorie del disagio sociale sono sempre meno definibili, i problemi delle persone assumono sfumature e connotazioni anche linguistiche più vaghe. Accanto alla devianza conclamata, quella evidente e visibile in alcune piazze o strade dei nostri comuni, si insinua il disagio dentro la vita quotidiana delle famiglie cosiddette «normali». Si sviluppano gli «sballi» circoscritti e nascosti del fine settimana di giovani e adulti, la povertà economica di tanti lavori precari, gli atti anonimi e collettivi di vandalismo verso i luoghi e le cose altrui, l’abbandono scolastico e la rinuncia al lavoro.

«In Bergamasca ci sono quasi 137mila famiglie unipersonali, composte, cioè, da un singolo componente. Una stima realistica ci porta a dire che almeno 27mila ragazzi tra i 15 e i 19 anni si sono avvicinati almeno una volta al gioco d’azzardo e che i giocatori patologici sono almeno 15mila. Di tutti questi, poco meno di 500 si sono rivolti ai servizi specialistici per chiedere aiuto e avviare una possibile diagnosi. Ci sono almeno 25mila giovani bergamaschi, in prevalenza donne, tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano, i cosiddetti “neet”. E poi, ci sono 12mila ragazzi tra i 15 e i 24 anni che abbandonano la scuola senza raggiungere il diploma».

«C’è un’area grigia, una zona di “non-agio”, quasi sempre privata, che in provincia continua a crescere e che è difficilmente misurabile in quanto non così chiaramente visibile. Ostica da rappresentare e difficile da immaginare in termini di possibili risposte», dice Iorio Riva, sociologo di Ats. I dati che il sociologo presenta sono allarmanti e ci obbligano a fare i conti con varie domande: «In Bergamasca ci sono quasi 137mila famiglie unipersonali, composte, cioè, da un singolo componente. Una stima realistica ci porta a dire che almeno 27mila ragazzi tra i 15 e i 19 anni si sono avvicinati almeno una volta al gioco d’azzardo e che i giocatori patologici sono almeno 15mila. Di tutti questi, poco meno di 500 si sono rivolti ai servizi specialistici per chiedere aiuto e avviare una possibile diagnosi. Ci sono almeno 25mila giovani bergamaschi, in prevalenza donne, tra i 15 e i 29 anni che non studiano e non lavorano, i cosiddetti “neet”. E poi, ci sono 12mila ragazzi tra i 15 e i 24 anni che abbandonano la scuola senza raggiungere il diploma».

Dottor Iorio Riva, cosa chiedono questi giovani?

«Nei casi migliori chiedono aiuto, nella grande maggioranza non lo chiedono perché non sanno che un aiuto è possibile».

Quale aiuto è possibile, considerando che su quasi 6mila persone che hanno chiesto il bonus psicologico di 600 euro all’Inps, con le risorse disponibili potranno ottenerlo soltanto in 500?

«Il bisogno delle risorse è innegabile ma la soluzione oggi non può neanche essere quella di assumere un professionista per ogni problema emergente».

Quindi come si risolve il problema?

«Oggi, e la pandemia nella sua tragica esperienza ce l’ha insegnato, abbiamo un’altra possibilità per gestire la complessità. È mettersi in “rete”, sostenersi a vicenda, organizzare

dimensioni comunitarie basate sullo scambio e non solo sull’aiuto. L’inserimento lavorativo di persone diversamente abili consente alle aziende di apprendere modalità di convivenza con la diversità che costituisce uno dei fattori di maggior successo delle imprese oggi; prendere un bambino in affido permette, oltre all’importanza dell’azione in sé, di acquisire maggiori competenze genitoriali; ascoltare il problema dei giovani permette anche all’adulto di mettersi in contatto con parti di sé accantonate da tempo. Costruire reti di solidarietà in un comune per aiutare persone in difficoltà, oltre ad essere un gesto prezioso, contribuisce a rendere più vivibili e sicuri i luoghi».

Un percorso ambizioso, ma come realizzarlo?

«Si tratta di operare per sviluppare una capacità dentro e fuori il lavoro ordinario delle organizzazioni e delle persone di produrre un valore aggiunto alle proprie attività. Fino a oggi ciascuno ha gestito il proprio ambito – sociale, sport, associazioni, eccetera – in autonomia, cercando di risolvere i problemi con le competenze di cui disponeva. Bisognerà creare una connessione tra i vari attori, Enti, strutture, che hanno possibilità di intervenire sul singolo disagio».

Ma così, non si corre il pericolo di paralizzare il sistema con migliaia di richieste, rischiando poi di non avere le forze per intervenire sui casi urgenti?

«Per questo è in corso una vera e propria riorganizzazione dei servizi. Stiamo costruendo strutture e una rete di figure professionali territoriali che siano in grado di definire varie tipologie di disagio per poter intervenire in maniera mirata e più efficace».

La riorganizzazione dei servizi che tempi comporta?

«I tempi individuati dal Decreto ministeriale 77/2022 e dalla Legge regionale 22/2021 che ridefinisce i modelli e gli standard per lo sviluppo dell’assistenza territoriale nel Servizio sociosanitario regionale».

Tradotto?

«Si sta cercando di ri-popolare i territori con servizi di prossimità, con la capacità di costruire prassi sinergiche e relazioni significative, di trasformare i bisogni in problemi in modo che possano essere non solo colti ma anche affrontati. Va in questa direzione la proposta di raccordo territoriale che l’Agenzia di tutela della salute di Bergamo sta ipotizzando. La nascita nelle Asst dei Distretti sociosanitari, delle Case e degli ospedali di comunità, l’implementazione sui territori della presenza degli infermieri di famiglia e comunità ad oggi, già 140 attivi sul territorio, l’azione dei sindaci degli Ambiti territoriali sociali dei Comuni e dei loro Uffici di piano, l’“eroica” attività quotidiana degli operatori sanitari, sociali ed educativi, della cooperazione sociale, delle fondazioni, dei patronati, delle scuole, della diocesi, dell’associazionismo e del volontariato ci fanno auspicare un cambio di passo deciso verso una maggior investimento sulla coesione ed il legame sociale nei nostri quartieri, Comuni, territori».

Un cambio di passo realizzabile in tempi brevi?

«Solo se ciascuno farà la propria parte. È necessario convincersi che il disagio, soprattutto quello giovanile, si affronta nel territorio, rendendo visibile l’invisibile, facendo emergere il sommerso, lavorando con e nelle comunità locali».

Quindi il volontariato diventa centrale per questo nuovo progetto?

«Sarà determinante. Questa provincia ha dato esempio di grandi capacità di intervento durante la pandemia. Migliaia sono stati i volontari di ogni appartenenza che hanno contribuito a creare una rete di solidarietà che ha fatto invidia al mondo intero. Noi vogliamo valorizzare questa capacità organizzativa e la disponibilità delle persone per “co-stringere” le situazioni di non-agio a non trasformarsi in disagio in modo da poterle rappresentare. Questa sfida possono raccoglierla solo i territori producendo capitale, legame e coesione sociale».

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